Anche la Chiesa è sotto una ginestra
XIX Domenica Tempo Ordinario Anno B (1Re 19,4-8; Ef 4,30-5,2; Gv 6,41-51)
E ancora siamo qui a mormorare, a rifiutare e protestare perché fa comodo tenere Dio lontano, confinarlo nel cielo più alto. Eppure, finché non ci apriamo al cielo e al suo dono, non sappiamo nemmeno la terra, non conosciamo e vediamo la storia vera del mondo.
I Giudei si misero a mormorare contro Gesù perché aveva detto: «Io sono il pane disceso dal cielo». E dicevano: «Costui non è forse Gesù, il figlio di Giuseppe? Di lui non conosciamo il padre e la madre? Come dunque può dire: “Sono disceso dal cielo”?» (Gv 6,41-42)
I Giudei mormoravano, pensavano di conoscere Gesù e la sua storia. Sapevano già tutto di lui. Rinchiusi nei loro saperi, protetti da idee e convinzioni, non vedevano che il divino si è fatto storia, che la loro storia è resa divina, che c’è un cielo che nutre la terra e c’è una terra che accoglie in sé il cielo.
E Gesù resta lo scandalo, perché egli è il pane disceso dal cielo e allora ogni terra è richiamo di cielo e il cielo invito a guardare la terra. E non c’è posto per una scelta o un’opzione. A noi spetta vedere e tenere insieme il cielo e la terra, il divino e l’umano, l’eterno e il tempo, la Parola e la carne. E noi siamo casa in cui la terra e il cielo danzano insieme.
Gesù rispose loro: «Non mormorate tra voi. Nessuno può venire a me, se non lo attira il Padre che mi ha mandato; e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. Sta scritto nei profeti: “E tutti saranno istruiti da Dio”. Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Non perché qualcuno abbia visto il Padre; solo colui che viene da Dio ha visto il Padre. In verità, in verità io vi dico: chi crede ha la vita eterna (Gv 6,43-47)
Nessuno può andare al Figlio se non è il Padre ad attirarlo. È bello questo Padre che diventa la forza che muove e attrae il mondo, impulso che suscita il movimento. È il Padre che attira al Figlio, che eleva ogni cosa perché sia divina, che accentra tutto perché il pane non manchi a nessuno, perché la vita risusciti nuova.
Ed è alle Scritture che occorre tornare e con esse anche alla storia e alla vita di ognuno. È lì che il Padre ha parlato e continua a farlo, indicando e mostrando il Figlio, perché è a lui che il Padre ci attira. Chi ha già imparato le parole e lo stile del Padre sa che è dal Figlio che bisogna andare, perché in lui il Padre mostra ora il suo vero volto, è lui la Parola che Dio ha pronunciato, è lui il pane che il Padre ha donato.
Andare dal Figlio e credere in lui riempie la vita di vita divina perché egli è Parola che si è fatta carne, è carne che si è fatta dono, dono che si è fatto cibo. Non c’è vita più vera, non c’è vita più piena.
Ma noi siamo sempre nel tempo, siamo gente e Chiesa in cammino. E il cammino non è facile e chiaro. Per camminare servono forze, serve un cibo che doni il vigore, serve una meta che lo renda urgente. E oggi emerge la figura di Elia, il grande profeta. Anch’egli ebbe un momento di crisi. Come noi, come la Chiesa di sempre e di oggi, come i tanti profeti, quelli veri che, senza saperlo, lasciano nel mondo tracce divine, indicano sentieri altri, riempiono l’oggi di segni d’eterno.
Elìa s’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: «Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri». Si coricò e si addormentò sotto la ginestra (1Re 19,4-5)
La prima lettura racconta di Elia. Egli ha tentato inutilmente di opporsi a Gezabele, alla sua seduzione e al suo potere. La regina fenicia, diventata potente in Israele, ha introdotto nel popolo eletto i culti pagani e i profeti di Baal e Astarte. Elia, che ha avuto un fugace successo e ha inutilmente pronunciato parole di fuoco, ha ora paura ed è costretto alla fuga. Dio non sembra dalla sua parte, le sue parole sembrano inutili, vuote e inascoltate. Il popolo eletto è ammaliato e affascinato dalla sovrana straniera e non riconosce più i profeti di Dio, non ascolta più le parole divine. È un popolo diventato sordo e ostile.
E un profeta che non possa parlare, un profeta che non abbia qualcuno ad ascoltarlo, un profeta che ha parole che sono ignorate non ha più altro da fare. Non serve parlare per Dio se nessuno più ne ascolta la voce. Ed Elia ha paura e fugge sconfitto. Si smarrisce, perde la rotta e la strada, perde vigore e fiducia, perde vita e freschezza. Dove può fuggire un profeta? Dove può trovare rifugio?
Nel deserto non trova la strada che dal fallimento lo conduca alle sorgenti del dono, dalla disfatta al Dio che lo ha scelto e inviato. Dopo il fallimento ogni cammino diventa incerto e insicuro, perché la fede sembra smarrirsi e il cuore diventa un deserto. La delusione ha la meglio e anche il dubbio si prende i suoi spazi. Nel deserto egli sente che anche il suo cuore è vuoto e smarrito, arido e senza più vita. Anche un profeta, uno dei grandi, può smarrirsi ed essere arido, restare vuoto e senza conforto, solo e senza più vita. E nel deserto respira la morte. Non c’è per lui altro riposo e conforto. La stanchezza ha avuto la meglio, la delusione è diventata macigno, il fallimento preannuncia la morte. Non è capace di parlare di Dio, non ne ha il coraggio e la forza. O forse è Dio stesso a non avere più forza.
Solo una ginestra resta a fargli ombra e riparo, una ginestra per custodire la morte e con essa il finire di tutto. Elia questo solo ora invoca, una morte che ponga fine per sempre, che dica basta ad ogni missione. Elia scopre di non essere migliore degli altri. Nemmeno lui è riuscito lì dove anche altri hanno fallito.
Elia sotto la ginestra si corica e dorme per prepararsi alla morte e anticiparla, per sentirla vicina e quasi amica nel suo lacerante dolore.
La vicenda di Elia resta anche oggi sempre la stessa. È vicenda di ogni profeta, di ognuno che prenda sul serio le parole del cielo e le impasti con la vita e la terra. Anche oggi, uomini e donne che sono profeti, vivono parole che dicono Dio, vivono storie che sanno di cielo, toccano la terra per farla divina. Il profeta vive delle parole che dice, della missione che compie, dell’annuncio che porta. Eppure anche oggi, ogni profeta vive spesso il dolore di avere parole che non “dicono” nulla, confuse tra altre parole, smarrite tra tanti discorsi. Ci sono ancora gesti e parole che dicono Dio eppure non sono visti e ascoltati, ignorati tra tanti fatti, tra tante chiacchiere che hanno la meglio. E allora meglio tacere, restare solo e lasciarsi morire.
E anche la Chiesa tutta, profezia e presenza divina, oggi vive il dramma di Elia. Riesce ancora a parlare con parole divine? Sa guardare con occhi di cielo? Sa toccare con mani d’amore? Sa restare fedele nonostante il potere che tutti seduce? Riesce ancora a mostrare sentieri che sono altri e alternativi? Sa essere ancora differente presenza? Sa vivere ancora l’insuccesso e il rifiuto? Sa restare fedele alle parole di Dio restando fedele anche al suo amore per l’uomo? Sa restare nel mondo indicando il cielo? Sa vivere il cielo impastando la terra?
No, non sono domande per gli altri e non sono domande retoriche. Sono domande poste a ciascuno perché ogni credente è chiamato ad essere presenza profetica, a rendere udibile e visibile Dio nel nostro mondo.
E poi arriva la voglia di lasciar perdere tutto, il dubbio che non ne valga la pena. Ed è questo il desiderio di Elia: la voglia di tirarsi fuori, di lasciare il mondo così com’è, di rinunciare a lasciare un segno divino. È lo sconforto dell’inadeguatezza, la sensazione di essere fuori tempo e fuori luogo. Elia non ha altro da fare o da dire perché tutto gli sembra ormai vano. Eppure la profezia è sempre fuori luogo e fuori tempo, perché dice che il cielo è impastato di terra e dice che su questa terra già il cielo si fa toccare. E dice anche che il futuro dà senso all’oggi e dice che l’oggi è già il tempo eterno.
Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia!». Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua. Mangiò e bevve, quindi di nuovo si coricò (1Re 19,5-6)
Ma Dio non lascia morire i profeti, non li lascia soli nei loro deserti. C’è sempre un angelo che tocca la morte, che tocca la sfiducia e ogni disfatta. Ci sono angeli sparsi nei nostri deserti a rintracciare le nostre ginestre, a toccare le nostre amarezze, a interrompere le nostre morti, a nutrire i nostri cammini. E allora Dio interviene, ma non per evitare lo scacco e la sconfitta, la fatica e la delusione. No, non c’è un Dio che semplifica tutto, che mi evita ogni paura, che mi libera da ogni fatica. Non è Dio quello che impone con forza le sue parole e tutti converte con forza di tuono.
L’angelo tocca ancora ogni profeta, ogni discepolo che è attratto dal Padre. E in ogni deserto c’è ancora pane e un poco di acqua, ciò che serve per rimettersi in piedi. Ma Elia si accontenta di poco, mangia solo per prepararsi a morire. C’è sempre il rischio di guardare al cibo che viene dal cielo, Parola e Pane che viene spezzato, e pensare che serva solo ad alleviare la morte e a farla un po’ più amica. E Dio diventa oppio e morfina, cura per il proprio benessere, consolazione che prepara alla morte e la rende più umana.
Ma Dio è molto di più. Non si accontenta per noi di una morte sazia e serena.
Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: «Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino». Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb (1Re 19,7-8)
Elia è ridestato ancora una volta dal tocco amico del messaggero divino. Non può rassegnarsi alla morte, non può consolarsi con poco. Deve alzarsi e mangiare perché è ancora lungo per lui il cammino. Non è ancora finita la storia di Elia, non sono finite le parole divine. Quel pane è forza per il lungo cammino.
Quarant’anni il popolo ha vagato nel deserto nutrito da Dio e ora Elia ha forza per camminare quaranta giorni e ritrovarsi lì, dove ogni cosa ha avuto inizio. Raggiunge il monte di Dio, l’Oreb (Sinai). Egli ha fatto a ritroso il cammino del popolo ed è ritornato lì dove tutto ha avuto inizio, alla fonte delle parole che egli ha pronunciato, della missione che egli ha vissuto. Egli, quasi a nome del popolo, si trova alle origini e al luogo da cui è uscita la parola divina. E lì, dove ogni cosa ha avuto inizio, tutto può ancora ricominciare.
La storia di Elia riprende proprio da lì, da un incontro con Dio che si rivela inaspettato. Egli lo attendeva nel vento impetuoso, nel terremoto e nel fuoco, e invece Dio si fa sentire nel sussurro di una brezza leggera.
Ed Elia, in fuga da Gezabele e dalla sua stessa missione, incontra un Dio che non conosceva, riscopre il volto che aveva annunciato, sente il respiro che lo rende vivo. Riprende da qui il suo cammino, nascono qui nuove parole, inizia ora la sua nuova missione.
Ed Elia sembra ancora dirci qualcosa, sembra ricordarci chi siamo nel mondo, chi è Dio e anche la nostra missione. Anche oggi, nella Chiesa e nei credenti, prevale lo sconforto e la stanchezza. Sembra inutile annunciare parole che siano divine, vivere storie che raccontano Dio.
Il pessimismo e il senso di disfatta spingono taluni a rifugiarsi in ideali passati, in sogni di restaurazione, in rimpianti, condanne e invettive che respingono il mondo per credere in un Dio che si è nascosto e rifugiato nei cieli. E dimenticano che è questo il mondo che Dio continua ad amare, è questa la terra alla quale egli continua a mostrarsi e a donarsi.
Altri, invece, assuefatti e proni ad ogni potere e consenso, sono pronti ad assecondare il potente di turno, a nutrirsi e ad ingrassarsi di ogni idea, moda, pensiero o ideale, ciò che conta è sembrare al passo coi tempi, sempre in linea con chi sembra guidare le sorti gloriose del mondo. E dimenticano che la terra e il cammino hanno bisogno di un pane diverso, di parole eterne che danno vita al tempo, di un corpo spezzato che solo il cielo può dare.
E forse anche a noi, non resta che la storia di Elia, del suo fallimento, del suo poco pane e del suo lungo cammino. La Chiesa rinasce sempre da lì e da lì ogni sua profezia!
Ogni credente porta in sè un cielo che si fa terra, il divino che si fa umano, una storia che diventa salvezza. E quando tutto sembra fallire, resta solo un po’ di pane nel mondo che è diventato deserto. Certo, anche quando la Chiesa è incerta e smarrita, ha solo il pane da cui ripartire, parola e cibo che rimette in piedi, il pane e un tocco di angelo che la desti e la risvegli al cammino per incontrare, ancora una volta, il soffio di Dio che ridona parole che sussurrano al cuore. E solo da lì tutto può ripartire.
Io sono il pane della vita. I vostri padri hanno mangiato la manna nel deserto e sono morti; questo è il pane che discende dal cielo, perché chi ne mangia non muoia.
Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo» (Gv 6,48-51)
È Cristo che dona ancora parole che sono pane, rese vive nella sua carne. E di parola e di pane abbiamo bisogno per destarci dai nostri torpori, per vincere i fallimenti, per superare le nostre crisi. C’è una vita che ci viene donata, c’è un futuro che è presenza di Dio, c’è un Eterno che si incontra nel tempo.
E per quanto, a volte, sia duro e difficile restare nel mondo con il peso di parole che chiedono carne, non ci resta che riprendere sempre nuovo il cammino. È l’incontro con Dio che ci rende profeti, è la parola accolta che ci dona parole, è il pane mangiato che ci rende pane spezzato per la vita del mondo.
Perché, alla fine, non c’è altro cammino, se non quello compiuto da Cristo.
Fatevi dunque imitatori di Dio, quali figli carissimi, e camminate nella carità, nel modo in cui anche Cristo ci ha amato e ha dato se stesso per noi, offrendosi a Dio in sacrificio di soave odore (Ef 5,1-2)