Parola

Una guarigione che prepara alla Croce

XXIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (Is 35,4-7a; Gc 2,1-5; Mc 7,31-37)

Questa volta sarò audace e, per questo, un po’ incerto. Quello del sordomuto non è un miracolo comune o un segno tra gli altri. É inizio che apre un orizzonte che si fa nuovo, è esordio di una storia che ancora si compie. Vi chiedo pertanto di pazientare con me, di seguire il mio balbettio, di ascoltare ciò che è inaudito. Partiamo quindi da parole lontane.

Dite agli smarriti di cuore:
«Coraggio, non temete!
Ecco il vostro Dio,
giunge la vendetta,
la ricompensa divina.
Egli viene a salvarvi» (Is 25,4)

Ci sono tempi in cui è difficile restare saldi e vedere il cammino, ascoltare e dire parole che esprimano il senso. Ci sono tempi (personali, sociali ed ecclesiali) in cui ci si sente smarriti, incapaci di proseguire il viaggio, incerti e indecisi perché, alla fine, non si sa mai se ne valga la pena.

Presi dai nostri mondi accartocciati, dalle nostre ansie che tolgono il fiato, dai nostri asfittici problemi concreti, dimentichiamo di ancorare il cuore, di fissarlo su una certezza, di farlo lacerare da un annuncio che, ormai, non aspettiamo.

Eppure, proprio quando ci sentiamo smarriti e pervasi dal nulla, riecheggia per noi l’invito che diventa promessa: «Coraggio, non temete!».

Non è il coraggio degli audaci o degli impavidi, non è l’invito ad essere eroi. È il coraggio che viene da una certezza inascoltata e dimenticata. Dio viene a salvarci! Dio viene sui nostri sentieri a rendere certo e sicuro il nostro cammino. Gli esuli Ebrei, stanchi e fiaccati dal loro esilio e rassegnati all’assenza di Dio, sono incoraggiati a riprendere fiato, a credere ancora in quel Dio che giunge a salvarli. E qui ancora non ci importa che il volto di Dio abbia il sapore della vendetta. Vedremo poi come Dio vendichi il male, cioè come lo vinca rendendolo innocuo. A noi ora interessa ancora ascoltare se quell’annuncio riguardi anche noi.

In realtà ci sembra ancora di illuderci! Cosa potrebbe accadere di peggio? Dov’è la salvezza a cui aspiriamo? Cos’è davvero questo Dio che promette senza che nulla ci sia mai dato a vedere.

E ancora più a fondo: ha senso ancora parlare di Dio? Ha senso indicarlo e mostrarlo vicino? Dove ascoltare parole che ridonino vita, che diano coraggio e rendano più sicuro il cuore sempre smarrito? Non sono domande retoriche! Sono interrogativi che mettono in crisi. Si può davvero ascoltare ancora qualcosa che dica chi è Dio e si può ancora aprire la bocca per dire a lui e dire di lui? E sembra che su Dio sia sceso il silenzio.

Ed è allora che occorre seguire le tracce dell’uomo di Nazaret, stare con lui nel suo cammino.

Gesù, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidòne, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli (Mc 7,31)

Al di là delle questioni geografiche, ciò che ci coinvolge è che Gesù si muova su terre pagane, tra gente che non ascolta il Dio che ha parlato, che non conosce il Dio che si è rivelato. Non hanno orecchi per udire la sua voce, non hanno voce per raccontare le sue meraviglie. 

E ci sentiamo anche noi intimi dei pagani di sempre, di coloro che non hanno un Dio e un Signore, perché è meglio, coi tempi che corrono, averne più d’uno. È meglio affidare la vita a tante divinità che sono alla mano e alla portata, a quelle che ti mostrano a cosa servono, che sanno darti ciò che ti spetta, che almeno promettono quello di cui tu sai di avere bisogno.

E siamo ancora pagani anche noi! Ancora in ricerca di un Dio che ci piaccia, di un Dio che ci dica ciò che vogliamo sentire, di un Dio che ci faccia dire quello che noi già pensiamo e sappiamo.

E in terra pagana e in terra nostrana serve ancora un vero miracolo.

Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano (Mc 7,32)

È questo il primo miracolo che ancora ci serve. Qualcosa che riesca a rompere i nostri silenzi, i nostri isolamenti che ci hanno protetto. Non è un caso se il miracolo del sordomuto sia, insieme a quello del cieco, segno che in Marco condensa e quasi svolge le scene, le distende e le rende chiare. Due sono i ciechi che in Marco sono guariti e due i sordomuti (sebbene di uno si dica solo che è posseduto da uno spirito sordo e muto). Si tratta di miracoli necessari per ascoltare, dire e vedere il mistero. Quello dell’uomo e quello di Dio.

A Gesù viene condotto un sordomuto. È un uomo chiuso in un mondo che non ha finestre, in una storia che non ha nulla da dire. Ci sono in lui confini che non riesce ad abbattere. Ha le orecchie chiuse e la lingua inceppata. Non può parlare bene e non sa farsi comprendere perché i suoi orecchi non sono capaci di ascoltare. E Gesù guarisce quell’uomo, riapre i suoi orecchi e scioglie il nodo che aveva alla lingua.

É un racconto semplice che, già così, ha molto da dirci. Viviamo nel tempo dell’incomunicabilità e dell’isolamento. Mentre aumentano le informazioni e le cose che vengono dette, ci accorgiamo di essere sempre più incapaci a comunicare, ad entrare in relazione con gli altri. Ma non si può vivere senza ascoltare e senza parlare, cioè senza accogliere parole che non siano nostre e senza donare agli altri quelle parole che solo noi possiamo dire. Dovremmo recuperare il senso e l’importanza delle parole.

Quando ascoltiamo lasciamo che il respiro e la vita dell’altro ci tocchi e faccia vibrare il nostro corpo. Ascoltare è accogliere il respiro dell’altro che urta le membrane dei nostri orecchi. Ascoltare è lasciarsi toccare dalla vita e dal respiro dell’altro. È vibrare insieme a lui, risuonare con il suo respiro, sentirci dentro il suo affanno e il suo vivere inquieto. 

Quando pronunciamo parole noi stiamo semplicemente modulando il nostro respiro, stiamo dando suono e forma al nostro vivere. Parlare è condividere e donare il proprio respiro. Ecco perché il mutismo affligge anche tanti che sanno parlare. È una lingua legata quella di coloro che parlano senza dire e donare se stessi. Le parole che diciamo sono vita e respiro che doniamo a chi ci è di fronte.

Bisognerebbe recuperare la fisica dell’udire e del dire per ritornare ad essere capaci di ascoltare e parlare davvero. 

Ascoltare e parlare è vita e respiro che riceviamo e doniamo. Per questo non si impara a parlare senza prima aver imparato ad ascoltare. Bisogna prima vibrare con il respiro e la vita dell’altro per essere pronti a mescolare e contaminare con il loro anche il nostro respiro e il nostro vivere. 

Ascoltare e parlare è possibile solo a coloro che sanno unire il proprio respiro a quello degli altri lasciandosi toccare dalla loro vita.

E questo potrebbe anche bastare. Chi vuole può fermarsi anche qui. Eppure a me sembra che questo racconto dica questo e molto di più. 

Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente (Mc 7, 33-35)

Gesù prende in disparte quell’uomo. È un gesto di tenerezza e di passione perché i gesti che si stanno per compiere sono intimi e personali. Ci vuole un incontro che sia di carne, ci vogliono cuori che sanno ritrarsi. E lì, in disparte, Gesù prende in prestito gesti che hanno a che fare con i guaritori del suo tempo. Ma, se Gesù li ha usati e Marco li ha raccontati (qui e poi nel racconto del cieco), è bene non lasciarli cadere. Rileggendoli in tutta la Scrittura, scopriamo che sono gesti che diventano nuovi, che dicono meglio e più a fondo il senso di questo prodigio.

Egli con le dita entra negli orecchi dell’uomo. Usa il suo corpo perché sia aperto il corpo di chi non sente. È un gesto con il quale Gesù varca i confini dei corpi, si introduce con forza benevola nel corpo di chi gli è di fronte. 

E poi un gesto ancora più intimo. Egli tocca con la saliva la lingua. E ci sembra strano Gesù che prende la sua saliva e la pone sulla lingua impacciata e annodata dell’uomo. E lì la saliva di Gesù si mescola e unisce a quella dell’uomo. È un gesto intimo che sa di bacio, di calore, di intimità, di vita mescolata e condivisa. La saliva era considerata respiro che si contrae, alito che si raggruma, vita che si condensa, spirito che si fa visibile. Il gesto di Gesù diventa allora anticipo e preludio al dono di una vita e di uno spirito che scioglie la lingua e dona al respiro dell’uomo il suo giusto suono e il suo più bel canto. 

Sono gesti che narrano l’amore di un Dio che entra nella carne dell’uomo, ne rompe le chiusure e ogni argine. È un Dio che dona, ancora una volta e ora per sempre, il suo alito e il suo respiro. Non più quello che mantiene vivi in questa vita, ma quello che dona una vita che è nuova ed eterna. È quel respiro, supremo e ultimo, che il Cristo consegna e dona morendo sulla croce.

Quell’ultimo grido e quel respiro (15,37: «Gesù, dando un forte grido, spirò» ) sono qui anticipati in quel sospiro, che riannoda la terra al cielo. È al cielo che egli volge lo sguardo e il suo sospiro è gemito e dice il dolore che diventa speranza, la morte che si trasforma in vita, il sacrificio che inaugura il dono. È gemito di vita che muore perché vita nuova nasca per sempre. È gemito del neonato e del morente che si fondono in uno. È gemito dell’innamorato che sa che amare significa donare il corpo per donare la vita. 

Solo dopo questi gesti, imperioso Gesù dice il suo ordine: «Effatà!».

È ordine rivolto all’uomo, che può ora aprirsi all’incontro e al mistero. È ordine che apre la vita e la rende feconda, che apre all’ascolto e a nuove parole. Bisogna aprire ogni chiusura. Non si può restare chiusi, non si può restare con le orecchie serrate e la bocca chiusa, non si può restare rinchiusi in una tomba. Ogni vita che incontra il Cristo è chiamata ad aprirsi, a vincere le pietre di ogni tomba che sembrano trattenere e ingabbiare la vita. Effatà è il grido nuovo che rimette in moto la storia, è il grido che spalanca ogni tomba. Apriti ad ascoltare ciò che è inaudito, apriti ad accogliere un respiro che non ti appartiene, apriti a dire parole che non conoscevi, apriti a vivere una vita che spalanca ogni tomba.

Dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!» (Mc 7, 37)

Allora si apriranno gli occhi dei ciechi
e si schiuderanno gli orecchi dei sordi.
Allora lo zoppo salterà come un cervo,
griderà di gioia la lingua del muto,
perché scaturiranno acque nel deserto,
scorreranno torrenti nella steppa.
La terra bruciata diventerà una palude,
il suolo riarso sorgenti d’acqua
(Is 35,7a)

Quelli che hanno visto il prodigio riconoscono che si è compiuta una nuova creazione (sono riprese e applicate a questo evento le parole del Creatore, che vede buona ogni cosa creata). Ha inizio una vita che è nuova. Gesù non si limita a riparare i danni di ciò che siamo e viviamo, ma fa bene ogni cosa perché rinnova e redime la stessa creazione. È il segno che qui molto è stato compiuto. È il segno che le parole di Isaia iniziano a compiersi.

Non è un miracolo semplice quello che viene narrato. Non è solo un prodigio fisico. È la dichiarazione aperta che non è possibile ascoltare l’annuncio inaudito, che non è possibile pronunciare parole che dicano Dio.

Ci vuole il suo intervento, ci vuole Gesù che prenda la nostra carne e la accompagni e introduca al mistero. Non a quello nascosto nei cieli, ma a quello visibile e scomodo che si compie nella sua carne terrena, proprio lì quando sulla croce il suo corpo esala il respiro ultimo. 

La guarigione del sordomuto si colloca tra le due “moltiplicazioni” del pane e, proprio dopo la seconda, Gesù è sulla barca con i suoi discepoli. Marco, con ironia, ci informa che i discepoli hanno dimenticato di prendere i pani e, quindi, hanno con sé sulla barca un solo pane, il loro Maestro. Gesù li sente discutere tra loro e con dura fermezza dice loro: «Perché discutete che non avete pane? Non capite ancora e non comprendete? Avete il cuore indurito? Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite?» (8,17-18)

E spesso succede ancora così! Discutiamo a lungo di ciò che ci manca, dimenticando che abbiamo il solo pane che basta. Bisogna ritornare al segno del pane, a quel segno che in sé condensa tutta la vita e il dono del Figlio e, quindi, tutta la vita e il dono del credente.

Tutto il vangelo di Marco (e forse anche la nostra vita) è trama di ascolto mancato, di incapacità di dire bene chi è Dio e, quindi, chi siamo noi in quanto discepoli. 

Nel vangelo bisogna aspettare la fine e anche oltre perché qualcuno, ancora una volta un pagano, sappia vedere fin dentro ogni apparenza, sappia ascoltare, sin dentro il grido spezzato, il mistero di un Dio che dona se stesso.

È il centurione, penso, il primo a cui la lingua viene sciolta davvero, il primo che osa dire parole che sono di scandalo, parole che scavano dentro. «Davvero quest’uomo era Figlio di Dio» (15,39). Ed egli può dire queste parole perché ha udito il forte grido che Marco non sa e non può raccontarci. «Gesù, dando un forte grido, spirò» (15,37).

Bisogna avere orecchi aperti per ascoltare la Parola di Dio e anche il suo grido, quell’ultimo grido che rende feconda la storia, quell’ultimo grido che si scioglie in respiro. É in quel grido che il dono si compie e Dio può essere visto da tutti. Per conoscere la salvezza di Dio, per diventare credenti dobbiamo lasciarci toccare gli orecchi dal quel corpo donato e da quel grido che dice l’amore. Per questo vale anche per noi l’invito a non temere. Conosceremo il volto del vero Dio, lo vedremo presente nei nostri cammini, lo scopriremo all’opera nella nostra vita, ma solo se avremo il coraggio di guardare alla croce e di ascoltare quel grido che compie il mistero.

Il Signore viene certo a salvarci ma per riconoscerlo dobbiamo avere il coraggio di lasciare che la carne del Figlio, con il suo grido di morte, con il suo respiro donato, con il suo sospiro sofferto, penetri nei nostri sensi, ci visiti nei nostri smarrimenti, ci incontri nelle nostre morti. E sarà ancora lui a ripeterci ancora «Effatà!».

Liturgia della Parola

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