Parola

Fossero tutti profeti!

XXVI Domenica Tempo Ordinario Anno B (Nm 11,25-29; Gc 5,1-6; Mc 9,38-43.45.47-48)

È forte la tentazione di pensare di avere un’esclusiva, di avere il monopolio di ogni dono divino. Bisogna avere un cuore aperto per vedere e riconoscere che Dio ha ovunque seguaci, spesso silenti e nascosti, che si rivelano in segni semplici, in un sorso d’acqua donato in suo nome. A tutti questi occorre guardare non come a concorrenti e avversari, ma come a complici di un mistero più grande, che soverchia e scavalca barriere e confini umani. Dio è dono per tutti, è presenza che si installa nei cuori. Ed è soprattutto ai piccoli e ai deboli nel loro credere che occorre prestare attenzione. Il loro cammino è incerto e indeciso ed è facile per noi, con le nostre certezze e le nostre ricchezze, diventare ostacolo, pietra che intralcia il loro percorso. 

Giovanni disse a Gesù: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava demòni nel tuo nome e volevamo impedirglielo, perché non ci seguiva» (Mc 9,38)

Giovanni è figlio del tuono, animo acceso e possente. Vede un uomo che scaccia il male nel nome di Cristo e sente che questo è per loro un problema. È sempre attuale questa confusione. Questo non riuscire a comprendere appieno che il nome di Cristo è potenza che varca frontiere, che spezza confini e steccati. Si può guarire e donare vita in nome di Cristo anche senza seguire i discepoli, senza appartenere ad una chiesa o ad un gruppo. Giovanni pretende che il gruppo dei Dodici abbia l’esclusiva del nome, della presenza che libera e riscatta dal male. E immagina, pensiero umano e mondano, che per avere in sé la forza di quel nome divino bisogna seguire i discepoli.

Siamo ancora nel discorso che è detto ecclesiale e del discepolo. È discorso che parla di noi e ci riguarda. Credere e usare il nome divino per vincere il male è possibile seguendo il Maestro, lasciando che le sue orme indichino la strada e il tracciato. E non sempre e per tutti, seguire Gesù coincide con il seguire i discepoli e quindi la Chiesa. C’è una fede che sovrabbonda! I discepoli non possono pretendere di sostituire il loro Maestro. Il pregiudizio per Giovanni, e anche per noi, è semplice e troppo umano. Se non seguono noi non possono compiere il bene, non possono, nel suo nome, vincere il male e allargare l’onda del bene. Eppure non sono le nostre orme a orientare il cammino, non sono i nostri criteri a delimitare la potenza del nome. Siamo ancora noi tutti in cammino. Anche noi, Chiesa che tenta, tra mille scandali e ostacoli, di mettersi alla sua sequela. 

Si pone forte questa questione: se non seguono noi, possono compiere il bene in nome di Cristo? Non abbiamo noi l’esclusiva? La tentazione di Giovanni, che è anche la nostra, ha radici lontane.

Un giovane corse ad annunciarlo a Mosè e disse: «Eldad e Medad profetizzano nell’accampamento». Giosuè, figlio di Nun, servitore di Mosè fin dalla sua adolescenza, prese la parola e disse: «Mosè, mio signore, impediscili!». Ma Mosè gli disse: «Sei tu geloso per me? Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!» (Nm 11,27-29)

Giosuè ha l’ardore e lo zelo del giovane. Ha seguito e servito Mosè sin da piccolo e chiede che sia posto rimedio ad una situazione che non è stata prevista. Eldad e Medad hanno ricevuto lo spirito e sono diventati profeti nell’accampamento. Non erano andati con gli altri, scelti e selezionati, alla tenda, erano rimasti lì dove si svolgeva la vita comune. Non erano usciti per incontrare la nube divina. Eppure anche a loro viene donato lo spirito. Fa pensare e fa riflettere! Sono due uomini che non hanno incontrato il divino come gli altri, non erano lì dove Dio si faceva incontrare. Eppure, dove essi vivono fanno esperienza dello stesso Dio. Restano al di fuori del recinto sacro, del luogo che è segno e presenza divina. Ma anche a loro viene donato lo spirito e diventano profeti in maniera inaspettata. 

Dio agisce in maniera libera. E se è vero che ci sono luoghi e ci sono gruppi e contesti in cui egli si rivela in abbondanza, è vero anche che la sua presenza si estende e manifesta in contesti che sono umani e ordinari. Lì, dove vive la gente comune, lontano dalla Tenda che è il Santuario, due uomini sono investiti della stessa forza divina.

Giosuè è animato da zelo che è solo umano. Ha diritti e privilegi da difendere. Ha esclusioni e limiti da opporre alla libertà con cui Dio dona se stesso. Per questo chiede a Mosè di porre un freno, di impedire ai due, che lo spirito stesso ha reso profeti, di parlare in nome di Dio. Giosuè chiede, insomma, che Dio stesso sia messo a tacere. 

Mosè chiama le cose per nome. È gelosia! È tentare di afferrare il dono di Dio come diritto che segna un vantaggio, come privilegio che crea distanze, come possesso che delimita confini.

Mosè chiama per nome quello che noi, che siamo nella Chiesa, nella Tenda in cui Dio si rivela, spesso ancora proviamo. È gelosia! Pensiamo di avere l’esclusiva di Dio, del suo Spirito e della Parola. Siamo gelosi del bene compiuto da altri, di quelle parole divine che giungono da labbra che non conosciamo, da vite che non appartengono alla nostra cerchia ristretta, di noi che siamo da sempre nel recinto sacro. 

E invece di gioire perché risuonano altrove le stesse parole, invece di esultare perché la presenza divina è dono che supera i nostri confini, entriamo in concorrenza. Invece di sentirci alleati dei profeti nascosti e anonimi della storia, di coloro che compiono azioni d’amore in suo nome e non sanno o non possono ancora entrare nei nostri recinti sacri, abbiamo bisogno di proteggere un’esclusiva, di difenderci, di rivendicare che Dio è solo nostro e così, ci capita ancora, rischiamo di farlo tacere.

Fossero tutti profeti nel popolo del Signore e volesse il Signore porre su di loro il suo spirito!

Fossero tutti profeti nel popolo. Fossero tutti capaci, nei luoghi in cui vivono, di compiere gesti divini. Fossero tutti inconsapevoli alleati del recinto sacro. Fossero tutti presenza di un Dio che si dona e si manifesta lì dove tutti lo credono assente. Fossero tutti capaci di dire parole che sono eco e riverbero della Parola divina. Fosse questo il sogno di ciascuno di noi, della Chiesa che guarda al mondo e scruta con impazienza ed amore che ovunque ci siano profeti, che ovunque Dio si faccia spazio nei cuori, che ovunque l’amore metta casa e radici. Ci vuole una chiesa con l’orecchio attento, che colga i timidi balbettii dello Spirito, che accolga le folate di vento che annunciano primavere fiorite. Ci vuole una Chiesa che apra finestre perché risuoni all’esterno l’annuncio che è vivo e ritorni, tra le sue mura, l’eco inattesa di una Parola che già agisce nel mondo.

Fossero tutti profeti, fossero tutti segnati da una Parola che, mentre noi annunciamo e viviamo, trova strade che non conosciamo per redimere vite e sollevare storie, per accarezzare volti e donare sollievo. No, non dobbiamo smettere di far risuonare la Parola nelle nostre comunità, di vivere comunioni che siano autentiche, di creare stili che siano ecclesiali, ma dobbiamo anche imparare a vedere i segni, a sentire i fremiti, a riconoscere i tratti di una presenza che ci chiede di uscire fuori, per essere, con tutti gli altri profeti, complici e artefici di una storia nuova. 

Ma Gesù disse: «Non glielo impedite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito possa parlare male di me: chi non è contro di noi è per noi (Mc 9,39-40)

Non dobbiamo impedire al bene di crescere. Non possiamo limitare la potenza del nome. È Gesù il criterio di tutto. Chi compie un atto potente nel nome di Cristo, e ogni atto d’amore è potenza divina, non può parlare subito male di lui. 

Chi, senza appartenere o seguire il cammino concreto delle nostre comunità, compie miracoli d’amore in nome di Cristo, è con noi, membro della nostra cordata, compagno del nostro cammino. 

È tempo che cessi, una volta per tutte, il mito della cittadella assediata, del gruppo ristretto che mantiene accesa la fiamma, dei pochi che sono ancora fedeli. 

C’è una umanità a noi sconosciuta che non è contro di noi e quindi è per noi, ma solo se anche noi restiamo con lui, dietro a lui.

Chi non è contro di noi è per noi

Questo detto di Gesù, che ci invita a sporgere lo sguardo oltre le finestre delle nostre chiese e dei nostri gruppi, richiama un altro detto simile eppure diverso. “Chi non è con me è contro di me” (Mt 12,30).

Sono due detti che non vanno confusi. Si completano e ci spingono alla radice della questione che è in gioco. La scelta autentica che pone ogni discrimine è solo Cristo e la sua persona. 

Chi non è con lui e non lo segue, non vive il suo esempio e non compie gesti d’amore in suo nome è contro di lui. Davanti a Cristo non vale l’indifferenza. O si è con lui o si è contro! Ma chi non è contro di noi è per noi. Gesù pone una distanza e una differenza tra sé e la sua Chiesa, tra lui e i suoi discepoli. 

La scelta davanti a Cristo è necessaria, ma spesso è implicita e anche nascosta. E allora occorre uno sguardo di fiducia e confidente speranza. Se guardiamo al mondo, tutti quelli che agiscono in nome di Cristo, anche se non sono dei nostri e non ci seguono, sono per noi perché non sono contro di noi. 

È interessante questo costante cambio di prospettiva dall’io di Gesù al noi della Chiesa. È Gesù che gli uomini sono chiamati a seguire. E anche le comunità concrete, che sono alla sequela di Cristo, sono tali se si pongono, in compagnia di tanti altri uomini sconosciuti e senza tessere o certificati di appartenenza, dietro l’unico Maestro. È solo lui che rende possibile l’incrocio e l’incontro tra cammini diversi che hanno in lui ogni crocevia. Il suo cammino, infatti, è sempre oltre ed è in quell’oltre che bisogna seguirlo. E scopriremo di essere in compagnia di alleati e complici che non sospettiamo.

Chiunque infatti vi darà da bere un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, in verità io vi dico, non perderà la sua ricompensa (Mc 9, 41)

È la concretezza dei gesti che dice di ognuno questo essere per lui e dice, di quelli che noi non pensiamo e non immaginiamo, il loro essere per noi.
Ci sono ovunque germogli di bene, esordi di segni nuovi, inizio di gesti potenti. È Dio che agisce e suscita ovunque quel bene che si fa nostro alleato, che dobbiamo scoprire e benedire.

E basta un bicchiere d’acqua dato in suo nome. Dato da chiunque. Un bicchiere d’acqua diventa il segno di ciò che basta per non essere dimenticati. Per essere parte di un mistero che è grande. Un bicchiere d’acqua dato perché voi siete di Cristo. È sempre lui a segnare il confine, ad essere il criterio e il vero discrimine. Se voi siete di Cristo, chiunque vi porga acqua fresca in suo nome sarà in qualche modo dei vostri, sarà messo dalla parte di Cristo e dalla vostra.

E i confini del credere diventano vasti, diventano immensi. Dio si accontenta di un po’ d’acqua data a coloro che sono suoi. E noi, che diciamo di essere suoi, diventiamo artefici e complici del suo disegno universale d’amore. E riceviamo acqua fresca che, saziando la nostra sete, fa abbondare di ricompensa il cuore di chi porge a noi quel bicchiere. 

E il nostro è un Dio che gode nell’abbondare, nel donarsi senza misura. E non ci può essere gelosia se ad alcuni basta un bicchiere d’acqua donato a noi per essere da Dio ricompensato, mentre a noi è chiesto di seguirlo sulla via della Croce. E noi e gli altri diventiamo artefici della vita abbondante per tutti. 

Eppure, proprio per questo, bisogna guardarsi dal rischio di essere scandalo, pietra che impedisce e rende difficile il cammino dei piccoli che credono in lui.


Chi scandalizzerà uno solo di questi piccoli che credono in me, è molto meglio per lui che gli venga messa al collo una macina da mulino e sia gettato nel mare
(Mc 9, 42)

Mentre viviamo il nostro essere Chiesa, ci è chiesto di vigilare. Ci sono piccoli che credono in lui, ci sono deboli che seguono con timore il suo cammino. È facile essere scandalo, pietra che ostacola il loro cammino, lo rende difficile e pieno di insidie. Ci sono credenti fragili, che chiedono una cura speciale: possono perdersi e restare feriti.

E spesso siamo noi a farli cadere, a farli desistere dal loro cammino. Quando mostriamo una Chiesa che è solo umana, quando seguiamo il nostro prestigio, quando la sequela diventa potenza, quando il servizio diventa dominio, quando le parole diventano pietre, quando la mano diventa possesso, quando la fede diventa ideologia, quando l’appartenenza diventa esclusione, quando l’amore diventa vantaggio.

Se la tua mano ti è motivo di scandalo, tagliala… E se il tuo piede ti è motivo di scandalo, taglialo… E se il tuo occhio ti è motivo di scandalo, gettalo via… (Mc 9, 43-48)

E anche tu puoi essere per te motivo di scandalo. Quando la mano è tesa per afferrare e arraffare, per possedere e dominare. Quando il tuo piede devia dal cammino che lui ha segnato, per seguire sogni di gloria, di potere e di dominio. Quando il tuo occhio non riflette la luce e diventa altezzoso, non vede il fratello e diventa invidioso. Quando non riesci a vedere la luce, il bene che ti circonda, il bicchiere d’acqua che ti viene donato. 

È meglio, allora, decidersi e rinunciare a ciò che non giova, a ciò che non dura in eterno e per sempre. È meglio essere monchi dei nostri possessi umani, dei nostri desideri di potere, delle nostre ambizioni invidiose. Ciò che conta e ci viene dato è entrare nella vita e nel regno, diventando, con tutti gli altri, complici di una storia nuova, di un modo nuovo di essere uomini. Non valgono confini e steccati, non servono recinti ed esclusioni, conta solo un bicchiere d’acqua e il suo nome!

Liturgia della Parola

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