Parola

Benedizione e maledizione

VI Domenica Tempo Ordinario C (Ger 17,5-8; 1 Cor 15,12.16-20; Lc 6,17.20-26)

È difficile districarsi tra le cose della terra e quelle del regno, tra i fondamenti che sorreggono il mondo e quelli su cui si fonda la vita del regno. E in mezzo resta la sfida lanciata ad ogni discepolo, ad ogni uomo che non voglia ridurre la fede a cornice e ornamento della propria vita.

È sfida alta e difficile perché è la vita, prima o poi, a chiederci conto del sostegno che abbiamo scelto. Non possiamo sottrarci alla scelta, dobbiamo deciderci su chi confidare e a chi affidarci. Ed è inutile stare a fare troppo i sottili, a distinguere e a lambiccare. Perché non c’è modo di restare in piedi se non accettando di affidare la propria vita a qualcuno che sia in grado di reggerla e sostenerla, a qualcuno che sia fedele e non tradisca, a qualcuno dal quale niente e nessuno possa mai allontanarci. Bisogna imparare, però, ad essere radicali perché la scelta si imprima, giorno dopo giorno, in tutte le scelte. 

«Maledetto l’uomo che confida nell’uomo,
e pone nella carne il suo sostegno […]
Benedetto l’uomo che confida nel Signore
e il Signore è la sua fiducia
(cf Prima lettura)

Benedizione e maledizione non sono decreti calati dall’alto. Ci sono due modi di stare al mondo che, nonostante i nostri tentativi ingenui o furbi, non possiamo tenere insieme e far convivere nelle nostre scelte. 

È maledetto l’uomo che confida nell’uomo. E noi detestiamo che sia così, che non possiamo stare in piedi da soli, che non possiamo salvarci da soli dalla disperazione che sempre ci assale. L’uomo che confida nell’uomo a noi piace, ci fa sentire importanti. Ci piace perché ci restituisce a noi stessi, alla nostra voglia di essere individui, noi separati da tutto, noi che abbiamo in noi stessi il nostro sostegno. Noi, rinchiusi nel nostro mondo e nelle nostre certezze. E vorremo diventare credenti adulti, talmente adulti da fare a meno di Dio e delle sue parole, dei suoi criteri e delle sue logiche. Ci basta che la fede ci riconsegni a noi stessi, che Dio si decida a dirci di fare come ci pare, che si rassegni a benedire ciò che vogliamo e che inizi, lui, a confidare in noi e nella nostra carne. Perché a noi piace bastare a noi stessi!

Eppure ci assale la disperazione, perché non reggiamo il peso del vivere e rendiamo sterile la vita che ci viene incontro. Certo, per pochi momenti, possiamo anche godere di quest’esaltata autonomia, di questo non aver bisogno di altro. Ci sono momenti in cui ci sembra di fiorire, ma i fiori durano poco e poi il tronco diventa secco e senza colore. Da soli, siamo come un tamerisco nella steppa, ci basta una veloce fioritura, quell’esaltata esibizione di un solo momento. Ci accontentiamo di apparire quel poco che basta per dire di bastare a noi stessi. E poi ci attende la fine.

Benedetto è l’uomo che sa di non bastare a se stesso, di non poter confidare nelle sue forze, nemmeno nelle sue stesse virtù. È benedetto perché si accorge che la carne non lo sostiene, non lo mantiene vivo. È benedetto perché sa radicare la sua vita lungo un corso d’acqua, perché sa che per crescere e portare frutti non può contare sulle sue riserve. Ed è allora, quando la povertà ti rende mendicante, la fame affamato e il pianto inconsolabile che ti è più facile levare lo sguardo e confidare e fondare te stesso nel tuo Signore.

E allora è benedizione sapersi poveri, riconoscersi piccoli, riconciliarsi con la propria debolezza. È benedizione scoprire le proprie mancanze, individuare le proprie zone d’ombra. È benedizione scoprirsi incapaci e persino indegni. È benedizione non contare troppo sulle proprie opinioni, sui propri pensieri e sul proprio cuore. È benedizione convivere con la propria miseria perché, proprio allora, è più facile affidarsi al Signore, confidare in lui e nella sua parola. Dovremmo smetterla di bastare a noi stessi, di condannarci alla sterilità, ad una vita che strappiamo a morsi perché ci sembra che non sia abbastanza. Dobbiamo smetterla di pensare che, essere adulti, significhi non avere bisogno di un Padre, non avere bisogno di tenere la vita fissata su un sentiero sicuro. Perdiamo tempo e la vita in vagabondaggi solitari e desertici, pur di non riconoscere che è più bello e più semplice il cammino che Dio ha aperto per noi.

Confidare in noi stessi e nei nostri criteri ci fa sentire potenti e importanti, finalmente liberi da ogni vincolo e da ogni legame. E, invece, restiamo schiavi dei nostri pensieri, rinchiusi nelle nostre idee, vincolati al nostro sentire. No, non è Dio o la fede a tarparci le ali, è la nostra maldestra ambizione a farci schiantare a terra ogni volta. 

E la scelta è sempre nostra e la sfida è sempre lanciata. In chi confidi? Chi è il tuo sostegno? 

Ed egli, alzàti gli occhi verso i suoi discepoli, diceva:
«Beati voi, poveri,
perché vostro è il regno di Dio.
Beati voi, che ora avete fame,
perché sarete saziati.
Beati voi, che ora piangete,
perché riderete.
Beati voi, quando gli uomini vi odieranno e quando vi metteranno al bando e vi insulteranno e disprezzeranno il vostro nome come infame, a causa del Figlio dell’uomo.
Rallegratevi in quel giorno ed esultate,
perché, ecco, la vostra ricompensa è grande nel cielo.
Allo stesso modo infatti agivano
i loro padri con i profeti.
Ma guai a voi…»
(Lc 6,20-24a)

Gesù si rivolge ai discepoli, sono loro i destinatari di queste parole. Non sono parole nuove, in esse riecheggia tutto il cammino, tutta la storia che Dio sta guidando. Gesù dice ai discepoli che possono essere beati. Sono dichiarazioni di gioia che fatichiamo ancora a capire.

Essere poveri, affamati e piangenti è la cosa peggiore che ci possa accadere. È ciò che il mondo considera fallito e finito. Ed è allora che per Dio ha inizio la beatitudine. No, non si esalta la povertà, non si gode della fame e del pianto. In gioco è molto di più e più in alto. I discepoli sono beati perché se sono poveri, affamati e in lacrime è perché hanno scelto di confidare in Dio, di appoggiarsi soltanto a lui. Di prendere sul serio la sua parola. 

Sono beati i poveri perché rendono vivo il regno, ci vivono dentro, lo fanno presente. Sono beati perché Dio è uno che inverte la storia, che capovolge le ragioni del mondo, che sconvolge le logiche umane. Dio ha già iniziato a capovolgere tutte le cose. 

E puoi esultare e rallegrarti mentre vivi il tormento di essere insultato e messo al bando, odiato e preso in giro perché ti sei rifiutato di confidare nell’uomo e hai smascherato la debolezza delle logiche umane. 

Si è beati perché si impara a vivere della vita di Dio e si inizia ad essere profeti, ad essere vita e parola radicata in Dio. Si è profeti quando ci si sottrae alle logiche del consenso e del tornaconto, quando non si cercano scorciatoie e non si mettono in saldo i doni preziosi che dalla fede sono stati donati. Ci vuole ostinato coraggio per credere e confidare nel Signore. 

Ma noi non siamo poveri, non siamo affamati né in pianto. Ma se vogliamo essere davvero discepoli, è da qui che dobbiamo iniziare. 

Dallo spogliarci di tutto e di noi stessi perché è altrove la nostra ricchezza e il nostro cibo, è altrove la nostra gioia. Credere non è inseguire il successo mondano e il consenso umano, dire e fare ciò che tutti si aspettano. Non è restare in attesa di benedizioni umane, che, poiché non hanno un prezzo, ci fanno sentire più ricchi. Credere è anche restare soli, in pianto e affamati, derisi e odiati. La via del discepolo è via difficile ma è la sola che conduca al sicuro, che fa entrare già ora nel regno, dove le logiche e i criteri del mondo sono sovvertiti e capovolti.

Per vivere nello spirito delle beatitudini dobbiamo essere pronti a rischiare tutto, a giocarci ogni cosa e ogni ricchezza perché non è in noi che confidiamo, non è in ciò che siamo e che abbiamo che poniamo speranza.

Essere discepoli è lasciare che la croce diventi la trama nascosta delle nostre scelte, la cifra concreta del nostro vivere, il segno chiaro del nostro cammino. Perché non ci sono per noi altre speranze, non ci sono altre consolazioni e sostegni. 

E possiamo smetterla di indignarci per tutto, di sentirci giudici di tutta la terra, non è qui la nostra consolazione, non è qui la ricompensa.

Lasciamo pure che il mondo ci giudichi con le sue logiche, ci valuti con i suoi criteri, si sdegni contro di noi perché proviamo a mostrare che nessuno basta a se stesso, che nessuno si salva da solo, che nessuno può arricchirsi di ciò che solo Dio può ancora donarci.

Bisogna lasciare che la croce e la sua logica diventi la trama quotidiana della vita perché la nostra speranza non ha i giorni contati, non è ridotta a questa vita, non si misura sui giorni di ricchezza e successo che possiamo godere.

Se infatti i morti non risorgono, neanche Cristo è risorto; ma se Cristo non è risorto, vana è la vostra fede e voi siete ancora nei vostri peccati. Perciò anche quelli che sono morti in Cristo sono perduti.

Se noi abbiamo avuto speranza in Cristo soltanto per questa vita, siamo da commiserare più di tutti gli uomini (1Cor 15, 16-19)

Non sia vana allora la fede, non sia vano il nostro credere. La nostra speranza non è nelle ricchezze e nel cibo, nel riso e nelle lodi del mondo.

È nel Cristo risorto la nostra speranza, è in lui che confidiamo. Guardando a lui possiamo lottare in questo mondo per risollevare le sorti di tutti, accettando di essere più poveri e un po’ più affamati, meno felici e anche più odiati. Perché sta a noi diffondere i segni del regno, sta a noi mostrare nel nostro stile di credere e vivere su quale fondamento ci siamo fermati, su quale sostegno ci siamo insediati, quale speranza abbiamo abbracciato.

Liturgia della Parola

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