Parola

Entrare nella nube

II Domenica di Quaresima C (Gen 15,5-12.17-18; Fil 3,17-4,1; Lc 9,28b-36)

La seconda tappa del cammino quaresimale fa sosta, dopo il deserto, sul monte. Salendo in alto bisogna portare solo la propria terra, quella di cui è impastata la vita. È sul monte che si ha una prospettiva più ampia, che supera steccati e confini. Il monte avvicina a Dio e permette di toccare ed entrare in cielo tenendo i piedi affondati sul nudo terreno. 

Sul monte si intravvede la luce che abita il buio, la gloria che splende nella passione, la vita che germina mentre si prepara la morte. 

Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare (Lc 9,28)

Gesù sale sul monte portando con sé tre discepoli. Lo hanno già visto alle prese con la morte (Lc 8,51-56), hanno già conosciuto che la morte può essere presa per mano, può essere accolta e fatta propria, può diventare sonno che risveglia la vita. Davanti alla fanciulla morta, Gesù mostra che la vita, per essere vera, deve attraversare la morte, deve lasciarsi sfidare e annientare. La morte, quella finale e quella continua che si accoglie nel non trattenere, nel non arraffare, nel non salvare le piccole vite che ci portiamo addosso, è spazio in cui si rivela e si dona la vita. Morire è amare, perché amando io scelgo che l’altro viva, che l’altro esista, che l’altro mi resti di fronte e renda più stretto il mio vissuto, renda più incerta la mia sicurezza, renda più fragili le mie ragioni. Amare è esporsi alla passione, perché solo chi è appassionato può anche patire, può imparare a morire perché a vivere sia soltanto l’amore.

Gesù sul monte sale a pregare. La preghiera è apertura di un varco che spacca la crosta di ciò che viviamo, è esporsi a ciò che ignoriamo, è rendersi disponibile ad un Altro che non può essere fatto nostro. Pregare è portare in alto la vita, liberarla da ciò che la trattiene, da ciò che la vincola e la tiene ristretta. Pregare è accogliere la luce che viene da fuori che risveglia e rafforza la luce che ci vive dentro. Pregare è fare l’azzardo più grande perché è esporre la vita sapendo che non ci appartiene, sapendo che è scintilla di un fuoco altro. Pregare è osare le altezze, sfidare la vita e la morte, ignorare le umane certezze per guardare e accogliere il mondo da una prospettiva divina.

Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme (Lc 9,29-31)

Ed è mentre prega che Gesù cambia d’aspetto. La preghiera fa cambiare aspetto alla vita, la rende candida e sfolgorante. La preghiera prende la vita e la trasforma, la rende pregna di luce divina, trasparenza e presenza di un mistero più grande. 

Ogni vita ha in sé ferite, ogni veste ha scuciture e parti lise, ogni storia ha frammenti da rammendare, opacità e macchie che non si possono nascondere. La storia di tutti è costellata di notti che sanno di fango, di tenebre che sanno di morte, di inciampi e cadute che fanno male.

Ma lì, sul monte in preghiera, Gesù mostra la sua identità, mostra la veste e il suo vero volto.

Anche in noi la preghiera agisce un po’ così. Ci fa cambiare d’aspetto la vita, ci fa vedere il candore lì dove c’è opacità, ci fa sentire lo sfolgorio delle stelle lì dove le tenebre non ci fanno vedere. 

E attorno a Gesù si raduna la storia sacra, la promessa e l’attesa. Mosè ed Elia sono con lui, perché in lui si compie un lungo cammino, in lui la storia trova il suo approdo. E Mosè ed Elia parlano con Gesù del suo esodo, della sua uscita, della sua dipartita. Non parlano di cose divine, ma del piccolo destino di un uomo che sta per essere ucciso a Gerusalemme. Parlano di un fallimento, della fine di ogni speranza (come lamentano i due di Emmaus), del crollo di ogni certezza. Parlano della morte di un uomo, anzi parlano della morte di Dio che si è fatto uomo. Possono parlare di questo, perché nelle Scritture è già raccontato. La fine di Gesù non è un incidente, non è l’esito di scelte umane, ma è il compimento di un’antica promessa, di quell’alleanza stretta con Abramo, che ha il sapore e il marchio del sangue. Un giorno, ai due di Emmaus, sarà Gesù a riprendere questo discorso, a raccontare ciò che nelle Scritture è detto di lui e del suo esodo. 

Eppure questa scena suona un po’ strana, a noi che viviamo nel tempo, che dividiamo tutto in frammenti. Parlano con lui della sua morte proprio mentre egli splende di luce divina. È quello il momento in cui si intravvede ciò che nessuno ha mai visto prima. Si vede la gloria divina che vive e risplende in un corpo umano, proprio in quel corpo del quale si prepara la morte. E forse da allora la luce vera nasce sempre da lì, dal cuore della stessa morte. Le altre sono luci ingannevoli e sfuggenti, sono lampi che non allargano la vista. La luce, quella che ci serve, non ha altro grembo se non la notte e la morte. È solo la morte e la notte che possono fecondare e mostrare la luce. È il paradosso di tutta la storia. Quando le tenebre si fanno fitte si prepara l’aurora, quando il buio sembra invadere ogni cosa proprio allora Dio si fa vedere. 

Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui (Lc 9, 32)

Sono oppressi dal sonno i discepoli. Si svegliano in tempo per vedere la gloria ma non hanno ascoltato il discorso che è stato fatto, non possono reggere a quelle parole. Anche al Getsemani (in Luca non si fa cenno ai tre, ma a tutti i discepoli) i discepoli dormono per la tristezza. Non sono in grado di reggere quei discorsi, la gloria di quell’agonia. È difficile vedere Dio e la sua gloria mentre Gesù parla della sua morte, quando suda sangue ed è in angoscia, quando muore restando solo.

Il sonno ha la meglio perché gli occhi non possono sostenere il mistero supremo della nostra fede, il mistero di un Dio che si consegna, che si umilia e si fa arrestare, che si lascia inchiodare e quindi muore. È contro ogni umana ragione, va contro ogni umano volere. 

I tre vedono soltanto la gloria, ma non riescono a capire quale sia la strada che conduce ad essa, quale sia lo scrigno che la conserva, quale sia la ferita che la rende accessibile, quale sia il trono dal quale risplende.

Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva (Lc 9, 33)
Pietro vuole fissare il momento, vuole renderlo duraturo. Era oppresso dal sonno quando si parlava della dipartita e ora è fin troppo sveglio e furbo. Vorrebbe installare la sua vita nella gloria, saltare le tappe, accorciare le distanze, evitare il sentiero scosceso e difficile che impone di restare in piedi prendendo la croce. 

È bello per lui essere lì e non coglie che la vera bellezza è quella di chi “non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto” (Is 53,2).

Pietro non sa quello che dice perché non capisce che la gloria nasce nell’umiliazione, che la luce risiede nelle tenebre, che lo splendore emerge nell’ignominia, che la bellezza risiede in un volto sfigurato. Pietro vorrebbe dividere e separare le cose, vorrebbe eliminare il cammino della croce e della morte che Gesù ha poco prima annunciato. 

Quella di Pietro è scelta e reazione umana. “Perché molti – ve l’ho già detto più volte e ora, con le lacrime agli occhi, ve lo ripeto – si comportano da nemici della croce di Cristo” (Fil 3,18). Ci comportiamo da nemici della croce quando non vediamo nel volto sfigurato del Crocifisso il volto trasfigurato di gloria. Siamo nemici della croce quando facciamo di Dio il nome che serve per giustificare il nostro ventre, i nostri bisogni più umani, le nostre esigenze terrene. Dio non è alla nostra portata, non si offre alle nostre richieste, non si propone alle nostre ricerche. Dio possiamo incontrarlo sempre lì, in preghiera su quel monte, in agonia, in continuo e prolungato travaglio, in quel dolore che sa di morte ma che è solo l’inizio di una vita nuova, di una umanità trasfigurata.

Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!» (Lc 9,34-35)

E se Pietro tenta di sfuggire a ciò che deve ancora accadere, è ora Dio stesso a far entrare tutti nella nube, a immergerli nella sua ombra. Non c’è più nulla di sfolgorante, c’è solo l’ombra che pervade ogni cosa, il buio che avvolge e sorregge. Ebbero paura, perché è difficile restare nel mistero di Dio, non quello immaginato dalla nostra volontà di potenza, ma quello che avvolge nella sua tenebra, che offusca e toglie la vista, che immerge in una coltre che sa di morte.

E Dio mostra se stesso come tenebra e luce, come umiliazione ed esaltazione, come passione e gloria. E dalla nube esce la voce che tenta di sostenere i passi incerti dei tre discepoli. “Ascoltatelo”, perché ascoltarlo è abbracciare la croce, è accogliere un linguaggio nuovo, è lasciare a Dio di essere Dio mentre è sulla croce e si fa buio su tutta la terra. Ascoltando il Figlio possiamo attraversare le ombre, possiamo muoverci quando ogni speranza ci ha abbandonati, quando le tenebre non ci fanno vedere la strada. E nella nube in cui si svolge e si spegne la vita solo una voce fa ancora da strada, apre e mostra il cammino, illumina di senso ciò che sembra soltanto la fine ed è invece una nuova trasfigurazione. 

Quando viviamo tempi che sono bui, che sono avvolti dall’ombra e Dio sembra assente, la fede ci spinge a credere che è proprio quello il momento in cui ascoltarlo, in cui uscire fuori, in cui vivere noi il suo stesso esodo. È solo ascoltando la voce del Figlio diletto che si può attraversare la nube, che si può vivere nella morte, che si può affrontare a mani nude il buio per farlo brillare della luce che emana dal volto glorioso del Crocifisso. Il cammino è tutto e sempre in salita, perché siamo fatti per altezze divine, siamo fatti per sfidare le morti e la morte, per farle risvegliare alla vita, per renderle, con pena e fatica, grembi in cui si rinnova la storia. 

*Mentre il sole stava per tramontare, un torpore cadde su Abram, ed ecco terrore e grande oscurità lo assalirono.
Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi
(Gen 15,12.17)

Quello che accade ai discepoli, era accaduto già in segno ad Abramo. Dio sceglie di fare un patto, di stringere un’alleanza. La scena è strana: un corridoio di animali spaccati in due. Poi cala la sera e con essa un torpore che colpisce Abram. Egli viene assalito da terrore e da oscurità. È la stessa esperienza di Pietro e dei discepoli. Il buio si è fatto fitto e solo allora un braciere fumante e una fiaccola ardente passa in mezzo agli animali divisi. 

È Dio che invoca per sé la stessa fine di quelli animali. Egli si impegna fino alla morte, si vincola ad Abram a costo della sua stessa vita. È troppo persino per noi credere ad un Dio che si mostra così. Egli si compromette e mette in gioco la sua vita divina. E passa, soltanto lui, tra gli animali divisi, lui che è fumo e fiaccola, luce e tenebre, morte e vita. Abram non regge a questa visione, non regge alla vista di un Dio che sceglie di amare e di restare fedele, di un Dio che mette in conto la sua stessa morte perché la vita sia donata agli uomini.

Eppure è questa la trasfigurazione, è questo l’esodo a cui siamo chiamati, è questa la salita sul monte e la preghiera che tengono in piedi la vita. Solo quando riusciremo a vedere in ogni volto e storia sfigurati i segni della trasfigurazione, solo quando riusciremo a far uscire luce dalle ferite e vita da ciò che fa male, solo allora saremo amici della croce, non perché amanti del dolore e della sofferenza, ma perché appassionati amanti della vita e del Figlio eletto. Ascoltando lui, scopriremo che l’alba del giorno nuovo è già viva nel cuore delle nostre notti, che, sebbene abbiano un cielo buio, risplendono di stelle che non riusciamo a contare.

* Qui è possibile leggere un commento, estratto dal mio libro, sulla prima lettura (Gen 15,5-12.17-18)

Qui puoi leggere una riflessione sul tempo della Quaresima

Liturgia della Parola

Condividi