Avere l’Agnello per pastore
IV Domenica di Pasqua (At 13,14.43-52; Ap 7,9.14b-17; Gv 10,27-30)
Viviamo giorni in cui le tante parole dicono poco e i passi si fanno più incerti ed erranti. Ci sono voci che si levano forti, per far sentire che hanno ragione, ci sono passi che calpestano terra e frammentano vite per far sapere che hanno la mano forte, pugno che stringe bene, che colpisce e bagna i volti di lacrime. E non si tratta solo di guerre e conflitti. Avviene così anche nelle vite ordinarie, nei nostri rapporti e situazioni. E forse è sempre stato così.
Si tratta della vita che ogni giorno, pezzo per pezzo, ci viene strappata: dal tempo, dagli altri, dalle scelte, dal male e dalla morte. È la vita stessa che si consuma.
E poi in quest’onda di nulla che sembra assalirci, in questa Babele di voci che infiamma e scompone gli animi, in questa ridda di urla che si contendono il nostro vissuto, restiamo soli. E pensiamo di potercela fare da soli, di essere in grado di resistere ai lupi, di affrontare da soli la vita e la morte. E poi rimaniamo con il volto segnato dal pianto, con le vesti imbrattate di tutto, stanchi e affaticati per aver camminato tanto ma invano.
Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono (Gv10,27)
A volte, verrebbe da chiedersi se ci sono ancora di queste pecore. Se questa voce riesce a bucare i nostri discorsi, a penetrare nei nostri distinguo, a farsi sentire nelle nostre voci. Anche quando pensiamo di essere guida a noi stessi, di poter fare da soli, di possedere il segreto di tutto, sappiamo che non ce la facciamo.
Abbiamo bisogno di questa voce. Abbiamo bisogno di ascoltare quel suono.
Non di parole che interpretino, non di discorsi che spieghino, non di esegesi che chiariscano il senso, non di confronti tra esperti che, spesso, servono soltanto a tirare Dio dalla loro parte perché confermi ciò che già pensano.
No. Prima di tutto, c’è bisogno di ascoltare la voce. Prima ancora di sentire le sue parole, è quella voce che serve ascoltare. È voce che penetra in fondo, che squarcia i nostri silenzi, che fa tacere le voci del mondo. È voce che sa sussurrare, che sa toccare ogni fibra del cuore, che sa risvegliare la vita assopita. È voce che si fa approdo. È voce che conosce il cuore, è voce impastata di amore.
Egli ci conosce e non c’è bisogno che io mi nasconda, che io mi impegni a sistemare le cose, che io provi a darmi un aspetto decente. Mi conosce e mi ama e non so perché lo faccia e non capisco perché mi voglia. Mi conosce perché mi è vicino, perché vede di me ciò che non so, perché penetra nel mio dolore, scava nel mio peccato, non si accontenta delle mie maschere, non si lascia convincere dalle mie parole, non si lascia turbare dalle mie scelte. Mi conosce e sa che da solo non trovo la strada, posso impuntarmi e andare altrove oppure fermarmi e restare ostinato, ma mi conosce e sa che, come ogni pecora, sono perduto senza un pastore.
E io so che mi conosce perché per parlarmi con quella sua voce deve sapere dove il cuore fa male, deve sapere dove sono debole, deve vedere dove sono ferito.
E poi bisogna capirlo che questa vita e questa fede non ci danno sosta. A me fanno pensare quelli sicuri, quelli che si sentono già arrivati, quelli che non hanno bisogno di cercare ancora, di andare altrove seguendo il pastore. E io invece so che quella voce mi chiede soltanto di seguirlo ancora. E non so dove, non so per quanto e, alla fine, nemmeno perché.
So però che devo seguirlo, anche quando ho scelto di andarmene altrove, di perdermi da solo o restare tra lupi. So che devo seguirlo perché lontano da lui la vita si spegne e tutto è perduto.
Io do loro la vita eterna e non andranno perdute in eterno e nessuno le strapperà dalla mia mano (Gv 10,28)
Siamo impegnati a trattenere tutto nelle nostre mani, cose e persone, beni e valori, speranze e giudizi, certezze e idee, amori e vita. Tutto è stretto nelle nostre mani, tutto afferrato perché sia al sicuro.
E poi scopriamo, tra lacrime e sangue, che le nostre mani non hanno forza e tutto è fatto perché sia perduto. Ci sfuggono le cose e i beni, ci sfuggono anche i valori e le norme perché non riusciamo a viverli appieno. E ci sfugge l’amore. E poi ci sfugge la salute e financo la vita.
Le nostre mani non sanno resistere alla forza del nulla che ci strappa tutto.
E restiamo soli, affamati e assetati, con i volti rigati dal pianto, senza nessuno che possa alleviare il dolore.
Non avranno più fame né avranno più sete,
non li colpirà il sole né arsura alcuna,
perché l’Agnello, che sta in mezzo al trono,
sarà il loro pastore
e li guiderà alle fonti delle acque della vita (Ap 7,16-17a)
Io do loro la vita eterna. L’Agnello sarà il loro pastore. Ed è per questo che posso seguirlo, che posso prendere sul serio soltanto la sua voce. Perché è voce di un Dio che si è fatto strappare il manto divino e quello umano, è un Dio che ha accettato di farsi strappare la vita e, invece, di tenersela stretta, ha scelto di donarla e di renderla nostro.
La mia vita ha ora un prezzo, ha il costo della vita di Dio. Ed è questo il mio valore. Io valgo per Dio la sua stessa vita, perché il pastore mi ha dato se stesso. Le pecore non andranno perdute e nessuno le strapperà dalla sua mano. È promessa di vita, è certezza di amore. La mia vita non andrà perduta. Nessuno può più strapparmi dalla sua mano.
Io posso ancora gettarmi in tutte le mani, posso donarmi al primo offerente, posso affidarmi al mercenario che passa. Ma anche allora egli è lì, a chiamarmi con la sua voce, a invitarmi e a mostrarmi la strada. Perché sa che in ogni mio errare c’è solo la paura di prenderlo sul serio, c’è solo il dubbio che non sia vero.
Questo Dio è un pastore deciso, pronto a lottare fino all’ultimo sangue, fino a donare tutto il suo sangue per vincere i lupi e ogni nemico. Usa il suo corpo per salvare il gregge, per sviare i colpi di ciò che ferisce, di ciò che fa male e alla fine morire.
La nostra salvezza è a caro prezzo, perché egli ha scelto di restare ferito, di restare colpito da ciò che scegliamo, di restare sconfitto dalle nostre paure.
E io ancora credo che la sua morte sia avvenuta per i miei peccati, perché le mie colpe non mi colpissero a morte, perché l’odio e il peccato, i miei e quelli di tutti, non si ritorcessero contro di me.
Ascoltare la sua voce è scoprire che non invoca terrore e l’ira divina, non incita all’odio e alla giusta vendetta. Ma accetta che tutto il male del mondo, tutto l’odio che si è accumulato, tutta la vendetta che è stata covata, tutto il terrore che invade la storia non si scagli più sulle sue pecore, ma su di lui, che si è fatto Agnello. E se è Dio a prendere su di sé le ingiustizie del mondo, se è lui a pagare per tutti i colpevoli, se è lui ad attirare su di sé il male e l’odio, l’ingiustizia e la vendetta, allora tutti siamo resi innocenti e tutto il male è già stato pagato, ha trovato il suo sfogo e lui ha accettato donando il perdono.
Se Dio ha scelto di essere vittima di tutto l’odio, tutto l’odio è già redento, tutto il male già perdonato, ogni vendetta già disarmata. E per quanto ci siano nel mondo ancora vittime del male e dell’odio, ogni colpo inferto all’uomo ha già colpito l’Agnello e lui ha risposto con il suo amore.
Niente e nessuno può più strapparci da quelle mani che sono mani segnate dai chiodi e sono mani che effondono vita. Le sue sono le mani dell’innocente su cui si è scatenato il male del mondo, di tutti i colpevoli di tutti i tempi. Ed è per questo che egli può custodirci nella sua mano, dove i nemici sono resi amici, gli avversari si fanno fratelli. Vittime e carnefici si ritrovano insieme perché il pastore è l’Agnello immolato che ha saldato i conti di ogni ingiustizia, ha pagato il costo di ogni vendetta, ha pianto le lacrime di ogni sconfitto, ha versato il sangue di tutte le vittime.
L’Agnello sarà il loro pastore. È questo un Dio alla rovescia che ci mostra un mondo che non conosciamo, dove il più grande si è fatto il più piccolo per mostrare a tutti il sentiero giusto, la strada buona che conduce alle fonti delle acque della vita. E quell’Agnello, immolato e ritto, è pastore forte che salva il gregge, che prende su di sé il male del mondo, l’attacco dei lupi e dei mercenari.
E Dio asciugherà ogni lacrima dai loro occhi (Ap 7, 17b)
Eppure Dio non ci evita il pianto, non si è impegnato ad evitarci ogni danno. Egli viene, però, ad asciugarci le lacrime, ad abbracciarci nel nostro dolore. Egli viene a darci vita, a renderci vivi in ogni morte, a ridestare l’ amore in ogni odio, il perdono in ogni offesa. Perché se è Dio ad asciugarci le lacrime anche il dolore è benedetto, anche l’odio si apre all’amore e la vendetta si trasforma in perdono.
Io, Giovanni, vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E uno degli anziani disse: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello (Ap 7,9.14)
Ci sono moltitudini immense, folle di gente che, in cielo e sulla, terra stanno in piedi davanti all’Agnello. Vivono nascoste agli occhi del mondo, ma sono folle che sono vincenti perché hanno vissuto grandi dolori restando fedeli soltanto all’amore. Hanno immerso la loro vita nel sangue dell’Agnello innocente.
Non c’è altro modo per lavare le vesti, per rendere candida la nostra storia, per rinnovare la nostra vita. È solo quel sangue che può rinnovarci e farci risplendere di vita divina. Quel sangue prende il male da cui siamo avvolti e ci restituisce un candore nuovo. Tutto il male che abbiamo creato e tutto l’odio che abbiamo diffuso non siamo in grado di cancellarlo, non possiamo riparare la storia. E allora è Dio che annienta il male perché è l’Agnello che lo prende addosso, è solo il Figlio che viene colpito e a tutto quel male egli risponde con l’amore che lava e sana, con il perdono che riapre la strada. È in quel sangue che la storia va immersa, perché ne esca rinnovata, perché abbia il gusto dell’amore nuovo, perché diffonda un profumo divino.
Per questo stanno davanti al trono di Dio e gli prestano servizio giorno e notte nel suo tempio e Colui che siede sul trono stenderà la sua tenda sopra di loro (Ap 7,15)
E tutti i redenti, che hanno immerso la vita in quell’amore, sono ovunque a servizio di Dio per rendere viva la sua presenza nel mondo. E Dio, che nel corpo del Verbo fatto carne ha posto la sua tenda in mezzo a noi, ora stende quella tenda su tutti i redenti, perché diventino anch’essi suo segno e presenza, sua carne, immensa e sterminata, che narra e rende presente il suo dono e la sua vita.