Parola

Lo Spirito grida in tutte le lingue

Pentecoste Anno C (At 2,1-11; Rm 8,8-17; Gv 14,15-16.23b-26)

Per cinquanta giorni abbiamo celebrato la Pasqua, abbiamo raccolto i frutti di questa storia, lasciando che la vita del Cristo risorto smuovesse le morti che ci portiamo dentro, aprisse i sepolcri che teniamo chiusi, ridestasse il coraggio e la voglia di amare. 

E ora, al termine di questo spazio di grazia, la Pentecoste ci proietta in avanti, ci spinge fuori e ci porta altrove. 

Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste (At 2,1)

È così che Luca introduce la venuta dello Spirito. Il giorno di Pentecoste sta per compiersi e sono solo le nove del mattino. Sta per giungere, cioè, a compimento ciò che il popolo ebraico festeggia in quel giorno: la fine del tempo del raccolto e la festa del dono della Legge. È un giorno, quindi, che rende possibile il resto dei giorni. La fine del raccolto e il dono della Legge rendono possibile la vita, garantiscono la libertà, creano l’unità, danno forma al popolo, assicurano il futuro. Il pio israelita, celebrando la fine del raccolto e il dono della Legge, celebra la vita che Dio rende possibile, il futuro nuovo, lo spazio aperto che Dio, nella sua fedeltà, rende possibile.

Ed è per questo che Luca ci dice che, cinquanta giorni dopo la Pasqua, quel mattino giunge a compimento la Pentecoste. 

Con la venuta dello Spirito, vivere la vita, essere liberi, sperimentare l’unità, sentirsi fratelli, avere un futuro e rinnovare la storia è davvero possibile.

La Pasqua ha inaugurato il tempo e lo spazio nuovo e ora, raccolti i suoi frutti, possiamo incamminarci nel mondo perché, per il dono dello Spirito, il giorno di Pasqua è strappato all’oblio e alle leggi del tempo e diventa l’anima e la vita di tutti i giorni.

un vento che si abbatte impetuoso… lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro… e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi… li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio (cf At 2,2-11)

Nel racconto degli Atti, sono tre i modi in cui la venuta dello Spirito si manifesta. Sono tre segni e richiami che ci permettono di dire qualcosa su colui che è indicibile. 

Il vento, il fuoco e le lingue. Sono i segni di un nuovo inizio, sono elementi di una nuova creazione.

Lo Spirito aleggiava nella creazione, come il vento che modella le cose, che smuove e dà forma alla vita, che feconda e muove la storia. Il vento è mistero che non si afferra, è soffio che scompiglia le cose, è vita che non ha origine, è apertura su ogni orizzonte. Il vento cambia continuamente, soffia da una parte e dall’altra, nasce nel segreto e si rivela nel fragore e nel trambusto. È soffio leggero che sussurra alle cose, è turbine e impeto che sferza la vita. Il vento è movimento che non si arresta, è vita che non si può trattenere, è fermento che smuove le cose, è seme che diffonde la vita.

E poi il fuoco, mistero che ricorda il divino, tocco che arde e che brucia, fiamma che si leva in alto, che il vento alimenta e diffonde. Il fuoco è miracolo di ciò che ti tocca e non puoi afferrare. È forza di ciò che si fa vedere e sentire e che, tuttavia, non si fa possedere. È luce che scalda e rincuora, è fiamma che modella e piega, è calore che purifica e dà nuova forma. La fiamma è una e si divide e ogni fiamma è lingua di fuoco che si comunica e si diffonde, che guizza lontano a infiammare altre cose.

E poi le lingue. Quel fuoco uno che diventa fiammelle, lingue diffuse di un unico fuoco, perché è l’uno che si fa molteplice e il molteplice che resta uno. E sono lingue che dicono amore, che narrano amori che non finiscono, che raccontano storie che fecondano il mondo, che celebrano un Dio che ha riscattato la vita.

E quel miracolo sempre più strano, in cui i diversi si sentono uguali, in cui i lontani si fanno vicini, in cui molti hanno un’unica voce che dice a tutti, in lingue diverse, che Dio è Amore e vive in noi. 

E Dio può dirsi nelle lingue del mondo, raccontarsi nelle diverse culture, farsi presente in tutte le storie. E da quel giorno si fa incontrare nella carne viva di tanta gente che sa ancora come narrarlo, che sa ancora far vivere Dio nelle parole e in ogni gesto. 

Lo Spirito di Dio, allora, è la presenza dinamica e vivente di Dio in noi, è la vita di Dio che muove la nostra. Lo Spirito è Dio che ci guida da dentro, ci smuove e modella, ci rende fecondi e dona un linguaggio e uno stile nuovo perché nelle scelte e nel nostro vissuto siano annunciate le grandi opere di Dio.

Voi però non siete sotto il dominio della carne, ma dello Spirito, dal momento che lo Spirito di Dio abita in voi. Se qualcuno non ha lo Spirito di Cristo, non gli appartiene.
Ora, se Cristo è in voi, il vostro corpo è morto per il peccato, ma lo Spirito è vita per la giustizia. E se lo Spirito di Dio, che ha risuscitato Gesù dai morti, abita in voi, colui che ha risuscitato Cristo dai morti darà la vita anche ai vostri corpi mortali per mezzo del suo Spirito che abita in voi
(Rm 8,9-11)

È Paolo a dirci, con parole spesso fraintese, perché è lo Spirito a renderci vivi e a riscattarci dalle nostre paure. 

La carne di cui parla Paolo non è il nostro corpo mortale, ma è la vita che si rinchiude in se stessa, l’uomo che vive a partire da sé, che resta chiuso al dono di Dio, che spera salvezza dalle proprie forze. 

Carne è l’uomo rinchiuso nel suo orizzonte umano, che vede il suo corpo destinato a morire, che vede ogni sforzo condannato a fallire, ogni conquista diventare perdita, ogni successo destinato all’oblio. Dovremmo, almeno ogni tanto, riflettere ancora sulla vita mortale, perché se tutto è destinato a finire, allora è ovvio aggrapparsi alle cose, fare violenza per restare in vita, afferrare il successo a costo di tutto, aspirare al piacere per godere del tempo, ubriacare la vita per sopportare il dolore. L’uomo mortale ha paura, nasconde il dolore per farsi forte e per resistere cerca salvezze e, spesso, diventa schiavo di tutte le cose, dei beni, dell’orgoglio, del potere, del successo, dei piaceri. 

La carne è l’uomo che non ha orizzonti, che non ha aperture che lo salvino, che non ha speranze che oltrepassino la barriera terribile e dura della propria morte, che si anticipa e si fa annunciare in tutte i fallimenti e in tutte le perdite che costellano la vita. 

Se lo Spirito di Dio abita in noi, invece, non siamo più sotto il dominio della carne, cioè sotto il dominio della morte, che ci fa paura e ci rende schiavi.

Lo Spirito, infatti, ci fa vivere della vita del Cristo, ci sa sentire che la morte non è più un baratro che ci è davanti, ma ponte e passaggio lasciato alle spalle. La risurrezione di Cristo è anche la nostra, perché è il suo Spirito che vive in noi, che ci incoraggia nelle nostre paure, che ci smuove nelle nostre incertezze.Non c’è da temere per il nostro corpo, la nostra persona non va perduta, perché lo Spirito ci rende vivi e ci fa vivere di vita immortale.

A volte la risurrezione dei corpi, cioè la vita oltre la morte, è stata fraintesa, è diventata rifugio o via di fuga per non vivere e impegnarsi nel mondo. Oggi, invece, è un po’ sottaciuta, come se non fosse il centro della nostra fede. 

Forse, se conoscessimo meglio noi stessi e l’umanità, impareremmo a vedere che tante miserie e schiavitù, tanti delitti e soprusi, tante violenze e sopraffazioni, tanti torti e maldicenze, tanta cattiveria e tante guerre sono solo l’esito di uomini chiusi e impauriti. E tutti quelli che pensiamo cattivi, sono soltanto un po’ impauriti, sono schiavi della loro vita, perché tentano, con disperazione, di fermare e afferrare ciò che sanno di non poter trattenere.

Così dunque, fratelli, noi siamo debitori non verso la carne, per vivere secondo i desideri carnali, perché, se vivete secondo la carne, morirete. Se, invece, mediante lo Spirito fate morire le opere del corpo, vivrete (Rm 8,12-14)

Paolo non annuncia un giudizio e un castigo. Annuncia l’esito delle nostre scelte. Se viviamo in debito verso la carne, cioè con il desiderio di trovare vita e riscatto da soli, rinchiusi in ciò che siamo e possediamo, se pensiamo di darci soli il nostro futuro, di assicurarci la vittoria sulla morte, di allontanare da noi la paura della fine, allora per noi la morte è certa. Perché muoiono gli uomini e le loro storie, i loro successi e le loro conquiste. 

Bisogna, invece, far morire le opere del corpo, cioè rinunciare a salvarci da soli, a restare chiusi nei nostri orizzonti. Per essere salvi dalla disperazione bisogna accogliere la vita vera, aprirci allo Spirito, ad una salvezza che irrompe già ora nella nostra vita e che ci rende vivi per sempre perché non più figli del tempo o di noi stessi, ma figli di Dio e del suo amore.

Infatti tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio.
E voi non avete ricevuto uno spirito da schiavi per ricadere nella paura, ma avete ricevuto lo Spirito che rende figli adottivi, per mezzo del quale gridiamo: «Abbà! Padre!». Lo Spirito stesso, insieme al nostro spirito, attesta che siamo figli di Dio. E se siamo figli, siamo anche eredi: eredi di Dio, coeredi di Cristo, se davvero prendiamo parte alle sue sofferenze per partecipare anche alla sua gloria
(Rm 8, 15-17)

I figli di Dio si lasciano guidare dal suo Spirito e sanno che, per vincere la propria morte, per soddisfare il proprio anelito, bisogna cedere a Dio la guida, bisogna lasciarsi condurre da lui, fin nella morte, per essere oltre.

Ed è lo Spirito a renderci figli, a rincuorarci nelle nostre paure, a renderci forti nei nostri timori. È lo Spirito che ci fa gridare «Abbà! Padre!». E da figli ci affidiamo al Padre, ci mettiamo nelle sue mani, liberi e poveri, senza vergogna, senza l’ardire di fare da soli, di renderci vivi diventando schiavi. È lo Spirito a sussurrarci di non temere, perché la morte è già stata vinta e se siamo figli, siamo anche eredi. E allora la vita è orizzonte aperto, è strada e futuro che ci resta davanti e persino la morte è aurora di gloria.

e io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Paràclito perché rimanga con voi per sempre (Gv 14,16)
e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23b)
il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto (Gv 14, 26)

E Dio ci doni ancora il Paràclito, colui che ci resta accanto, che ci difende e ci consola, che ci rende certi che siamo figli, che ci fa forti nell’affrontare ogni sfida. Abbiamo bisogno dello Spirito per diventare dimora di Dio, per essere tempio della sua presenza e in noi siano dette le opere di Dio e del suo amore. E sia lo Spirito a segnarci dentro perché il Figlio, Parola del Padre, si dica ancora nelle nostre vite, si mostri oggi nei nostri volti. E lo Spirito ci ricordi ancora che tutto ciò che il Figlio ci ha detto è ancora da dire nella nostra vita, nelle lingue del nostro tempo perché ovunque risuoni, con fiducia e amore, il grido che in noi grida Abbà! Padre!

Per ulteriori riflessioni sulla Pentecoste, è disponibile il commento dell’anno B

Liturgia della Parola

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