Parola

Per vivere bisogna imparare a morire

XVIII Domenica Tempo Ordinario C (Qo 1,2; 2,21-23; Col 3,1-5.9-11; Lc 12,13-21)

Bisogna guardare in faccia la realtà. Se fissiamo lo sguardo su tutte le nostre ansie, i nostri deliri e le nostre passioni, le nostre frenetiche attività, si spalanca davanti a noi l’assurdo di ciò che tiene in ostaggio la nostra vita. Siamo preda e vittime del nostro affannarci, del nostro affaticarci con ansia, del nostro bisogno di afferrare e trattenere ogni cosa illudendoci di afferrare e fare nostra la vita. 

Vanità delle vanità, dice Qoèlet,
vanità delle vanità: tutto è vanità
(Qo1,2)

Tutto è vanità perché tutto è vacuo e temporaneo, senza fondamento e consistenza. Tutto è soltanto corsa disperata verso un dirupo, è marcia veloce e ineluttabile verso una radicale assenza. 

Tutto è soffio disperso nel vento, è sussurro che si perde nel tempo, è respiro che si dilegua e scompare.

È triste e duro scoprirlo ogni volta, riconoscerlo ad ogni svolta della vita e delle relazioni, eppure è la cosa più vera che da sempre sappiamo. Siamo esile fiato, siamo polvere e nulla, erba che dura appena un giorno, ricordo destinato a smarrirsi, promessa e incanto che sprofonda nel nulla. 

Lo sappiamo! Ed è per questo che tentiamo di riempire il vuoto, di colmare il nulla, di dominare il tempo diventandone schiavi. 

Chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male.
Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!
(Qo, 2,21-23)

Tutto il lavoro e il darsi da fare, la fatica e le preoccupazioni, l’affanno e le ansie, le corse sfrenate che riempiono i giorni, le voglie di beni e di successo, tutto è solo schermo che serve a limitare lo sguardo, a impedirci di guardare alla fine, a quell’abisso che ci rivela che nulla ha più senso se tutto è destinato a finire. 

Non è pessimismo o alienazione, non è fatalismo o rassegnazione. È semmai il coraggio di guardare in faccia se stessi e la vita, di vivere in piedi senza farsi illusioni, di vivere il tempo come sabbia che scorre in una clessidra, sapendo che ogni istante che passa riduce il tempo della nostra esistenza. 

A nulla servono le nostre fatiche, la nostra ansia di avere successo, di afferrare con i nostri artigli le cose e le giornate. Quale profitto ci viene da tutto questo? Quale vantaggio? Quale vera soddisfazione? È angosciante la nostra fatica, il nostro tentativo di afferrare la vita, di stringerla con forza stringendo le cose. 

Ci sono notti che sono asfissianti, incubo da cui risvegliarsi, tempo che ci sembra inutile, istanti da accorciare, perché ogni notte ci ricorda che, alla fine, bisognerà aprire le mani stanche e serrate, perché restino ferme ed inerti, incapaci di stringere ancora, di afferrare e trattenere.

Tutto è vanità! Tutto è soffio disperso nel nulla e ogni impresa e costruzione, ricchezza e successo, potere e patrimonio, ogni cosa costruita con impegno e fatica, con ansia e determinazione, cadrà in mani che non sono nostre.

Eppure, continuiamo a far finta di non vedere e sapere. Tutto di noi è già pronto per essere polvere ed erba seccata, tutto è già abisso che avvolge ogni cosa, silenzio che spegne e cancella ogni fama.

Ma noi siamo qui, fragile erba su questa terra, affamati di vita e di futuro, mendicanti di storia e di esistenza. Restiamo abbarbicati a questa terra, afferrati ad ogni cosa, aggrappati ad ogni successo e ricchezza da cui invochiamo e pretendiamo salvezza. E vogliamo beni a cui appartenere, vogliamo cose che ci diano vita. E a furia di ignorare e sfuggire alla morte, ci lasciamo strappare di mano la vita e la ricchezza divina che è la sola che può garantircela.

Uno della folla disse a Gesù: «Maestro, di’ a mio fratello che divida con me l’eredità». Ma egli rispose: «O uomo, chi mi ha costituito giudice o mediatore sopra di voi?» (Lc 12,13-14)
Secondo l’usanza solo il figlio maggiore ereditava ogni cosa. Gesù, chiamato in causa, rifiuta di prendere parte e posizione. Rifiuta di cedere alla logica per cui l’eredità vale più della fraternità. Gesù si oppone all’insano modo di pensare per cui la paternità, invece di essere fonte di vita e di fraternità, di amore e comunione, di relazione e condivisione, è occasione di conflitti e di usurpazioni, di divisioni e di giudizi. 

L’eredità di questa terra, i beni di questo mondo rischiano di oscurare la ricchezza della fraternità, dell’essere figli dello stesso Padre, che ci fa figli per farci fratelli.

Solo la fraternità è l’eredità più vera e duratura che un padre consegna ai suoi figli ed è questa l’eredità che non può essere calpestata dal bisogno di prendersi i beni, di accaparrarsi ciò per cui non si è lavorato.

E disse loro: «Fate attenzione e tenetevi lontani da ogni cupidigia perché, anche se uno è nell’abbondanza, la sua vita non dipende da ciò che egli possiede» (Lc 12,15)

Gesù ci mette in guardia, ci invita a fare attenzione, a ponderare la situazione. La vita di ciascuno non dipende da ciò che possiede, non si misura con il suo avere. 

Essere e avere! La solita storia per cui confondiamo le cose e prendiamo male le nostre misure. 

Nessun avere può aumentare il nostro essere, nessun avere può garantire il nostro esserci, nessun avere può rendere ricco di giorni e bellezza il nostro essere. 

L’avere non sa il segreto dell’essere, non sa garantirne la sua consistenza, non sa renderlo vivo e renderlo bello. 

Ed è per questo che bisogna fermarsi a distanza da ogni cupidigia. Non si tratta solo di beni e di ricchezze, di soldi e di case. La cupidigia è quella fame più grande di cose e di soldi, di fama e di successo, di potere e di considerazione, di importanza e di forza. È voler avere di più con l’illusione che in questo modo si possa essere di più, più a lungo e più pienamente.

E perché sia chiaro che Gesù, con queste parole, non intende ammansire le nostre voglie, trattenere le nostre aspirazioni, affogare i nostri desideri, convincerci a volare basso, racconta una parabola che è la parabola di tutta la vita, il racconto dell’esistenza di ognuno.

Poi disse loro una parabola: «La campagna di un uomo ricco aveva dato un raccolto abbondante. Egli ragionava tra sé: “Che farò, poiché non ho dove mettere i miei raccolti? Farò così – disse –: demolirò i miei magazzini e ne costruirò altri più grandi e vi raccoglierò tutto il grano e i miei beni. Poi dirò a me stesso: Anima mia, hai a disposizione molti beni, per molti anni; ripòsati, mangia, bevi e divèrtiti!”» (Lc 12, 16-19) 

Questa parabola è racconto fedele e cronaca odierna. L’inizio di tutto non è l’uomo ricco, non è lui il vero centro. Al centro vi è una campagna che dà un raccolto abbondante, una ricchezza immeritata, un’abbondanza non ricercata. Quella ricchezza non è l’esito di un lavoro eccezionale, di uno sforzo ulteriore, di un impegno maggiore. Quella ricchezza è solo imprevisto, è solo dono. L’uomo, già ricco, si vede coinvolto in un raccolto abbondante. 

Sono quindi chiari i termini della questione. In gioco non è il lavoro dell’uomo, la giusta retribuzione, la prudenza solerte di chi pensa al domani. La parabola non invita al disinteresse e all’irresponsabilità. 

C’è qui una sovrabbondanza imprevista e non necessaria, che coinvolge uno già ricco. E il ricco, davanti al raccolto abbondante, resta chiuso nel suo piccolo mondo, si rifugia in sé e nella sua solitudine. Si mette a ragionare e a parlare da solo. Non ammette altri nel suo pensiero, non coinvolge nessuno nel suo domandare, non condivide con altri il suo “problema”. Parla con sé come fosse un altro, si consulta con sé come fosse un dio. La sua vita è chiusa nel proprio forziere, custodita come fosse un tesoro, posseduta e gestita come fosse un avere.

Ragiona tra sé, incapace di aprire il suo mondo, di allargare lo sguardo, di rivolgersi ad un tu che lo renda umano, che lo sottragga al dominio delle cose, che lo faccia sentire persona, che lo renda davvero vivo.

Il ricco non ha dove mettere i suoi nuovi raccolti. Non c’è posto per loro perché non ne ha bisogno. Decide quindi di demolire ciò che ha già costruito, spazza via ciò che con il suo lavoro ha già fatto. Crede così di accumulare la vita, di avere magazzini che custodiscano il suo futuro. 

E parla ancora a se stesso come fosse un dio. Si racconta progetti che coinvolgono gli anni a venire. Dispone per sé molti beni e pensa, per questo, di disporre ancora di molti anni. È l’illusione di ogni nostro respiro, la confusione che spesso ci assale. Ci illudiamo che accumulando l’avere si moltiplichi anche il nostro essere. E beni, affetti, successi, potere, forza, stima, prestigio, ricchezze ci illudono di farci essere, di farci essere di più e più a lungo.

Quello del ricco è il soliloquio onnipotente di chi è rinchiuso nel suo piccolo mondo, nel suo piccolo o grande avere e, per questo, pensa di essere dio, signore assoluto della sua vita, unico e solo a gestire il futuro.

«Ma Dio gli disse: “Stolto, questa notte stessa ti sarà richiesta la tua vita. E quello che hai preparato, di chi sarà?”. Così è di chi accumula tesori per sé e non si arricchisce presso Dio (Lc 12, 20-21)

In quel soliloquio irrompe la voce che era stata ignorata. È la voce di Dio che unisce e accorda la voce di tutti i poveri e i diseredati, di tutti gli umili e gli abbandonati. E Dio chiama ogni cosa per nome. È stolto quel ricco che parla con sé, che resta chiuso al Padre e ai fratelli, che progetta da solo il suo futuro, che affida il suo essere a tutti i suoi averi, che immagina che i beni moltiplichino i giorni, che basti avere perché ci sia l’essere.

E Dio irrompe nella preghiera che il ricco rivolge a se stesso. Dio non chiede indietro i beni e le cose, non rivendica il raccolto abbondante, ma chiede al ricco la sua stessa vita. 

Per quanto il giorno sia ricco di avere, ci sarà sempre una notte in cui l’essere verrà a mancare. Ed è quello il momento in cui emerge la feroce e cruda domanda, l’assillo di chi non sa incontrare volti e fratelli. 

“Quello che hai preparato di chi sarà?”. È la domanda che ci brucia dentro, è la disfatta di ogni nostra fatica. Con quella domanda Dio pone in crisi ogni cupidigia, ogni smania e ansia che ci toglie il sonno, ogni discordia e conflitto per i beni del mondo. L’eredità che noi lasciamo è persa e inutile se non si radica nella paternità, se non genera e moltiplica fraternità, se non crea amori e relazioni.

A nulla serve accumulare tesori se non si diventa, giorno per giorno, ricchi presso Dio. 

Non è maledetta la ricchezza che anzi è dono reso abbondante, ma la ricchezza di questa terra è strumento per arricchirsi davanti a Dio, aprendo la vita al dono e alla condivisione, all’offerta e alla gratitudine. La ricchezza è occasione per diventare padri condividendo con gli altri i propri beni, per creare fraternità nella comunione e nell’incontro. 

L’uomo ricco della parabola è un uomo isolato che compie azioni che sono insensate. Egli accumula solo per sé. Demolisce i suoi magazzini per ingrandirli e spreca risorse sprecando la vita e dimentica che c’è una notte in cui Dio richiede la vita, quel suo primo dono, l’origine e il senso di ogni altro dono.

La vita ci sarà richiesta, verrà la notte e verrà nonostante tutto l’affanno delle nostre giornate. Ed è per questo che per vivere bisogna prima imparare a morire. La morte è sempre appello e richiamo perché rende più vero e intenso il nostro pensare alla vita, a come vivere e a come gestire il tempo e le nostre risorse. A come vivere diventando fratelli.

Fratelli, se siete risorti con Cristo, cercate le cose di lassù, dove è Cristo, seduto alla destra di Dio; rivolgete il pensiero alle cose di lassù, non a quelle della terra.
Voi infatti siete morti e la vostra vita è nascosta con Cristo in Dio! Quando Cristo, vostra vita, sarà manifestato, allora anche voi apparirete con lui nella gloria. Fate morire dunque ciò che appartiene alla terra: impurità, immoralità, passioni, desideri cattivi e quella cupidigia che è idolatria
(Col 3,1-5. 8)

Liturgia della Parola

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