Non servirsi del proprio servizio
XXVII Domenica Tempo Ordinario C (Ab 1,2-3;2,2-4; 2 Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10)
Ci sono parole divine che fanno fatica ad entrarci nel cuore. La vita fa resistenza e oppone delle buone ragioni. A volte, ci sembra giusto rileggerle sotto altra luce, smussarle e renderle più congeniali. E, così, ci evitiamo la fatica di restare sospesi, di interrogare la vita, di mettere in crisi noi stessi e ciò che sappiamo.
Le parole che la liturgia oggi ci presenta stridono e fanno rumore. Tracciano solchi che non riusciamo a colmare. E allora conviene ascoltare davvero quelle parole, mettendoci anche in ascolto dei loro echi e dei loro rimandi. Dobbiamo prenderci il tempo di ampliare lo sguardo e l’orizzonte, in attesa che sia il cuore a farsi più ampio, abitato da una fede che resta un dono, da un amore che non possediamo, da una grazia che non possiamo arginare.
Gli apostoli dissero al Signore: «Accresci in noi la fede!» (Lc 17, 5-6a)
Messa così, questa preghiera sembra uscita dal nulla. Sembra il grido di chi vuole far meglio, di chi vuole crescere nella sua adesione al Signore. In realtà, la preghiera degli apostoli nasce dalla sensazione che a loro è richiesto qualcosa di impossibile, qualcosa che umanamente non sanno fare. Gesù, infatti, ha detto parole difficili e troppo lontane dall’umano sentire. Ha appena indicato la via del perdono come sentiero per incontrare ogni fratello, soprattutto quello che ricorda il “minore” (come nella parabola del padre misericordioso).
Riecheggia, infatti, in tutto il brano, ciò che in quella parabola Gesù ha raccontato. È qui, infatti, che, in qualche modo, si chiude il discorso aperto da quella parabola.
Gesù ha appena detto: “Se pecca sette volte al giorno contro di te e sette volte ti dice: Mi pento, tu gli perdonerai” (Lc 17,4). Quello che Gesù chiede è un perdono ostinato e potente.
Davanti all’esigenza di un perdono senza limiti e condizioni, gli apostoli capiscono che ciò che Gesù chiede non è per loro possibile e, per questo, invocano un dono che non possiedono, una grazia che non sanno darsi.
Vogliono una fede più grande perché intravvedono le azioni grandi che devono compiere. Ne fanno una questione di quantità, fede da sommare a fede.
Preghiera bella e chiara, ma che non va nel segno, perché non coglie il senso dell’avere fede. Fede non è questione di misura e di conto, di quantità e di dimensione. Fede è questione di vita. È guardare la vita da un’unica prospettiva, è far nascere le nostre azioni da un’unica fonte, è parlare da un unico fiato. La fede è vita che si sa affidata e, proprio per questo, sa affidarsi e puntare altrove. Fede è sapere che il centro del mio stesso vivere non mi appartiene e non è in mio potere.
Credere non è accumulare certezze, aumentare le pratiche, contare i pensieri, accrescere le convinzioni. Credere è vivere! Credere è dono divino da accogliere e custodire.
Il Signore rispose: «Se aveste fede quanto un granello di senape, potreste dire a questo gelso: “Sràdicati e vai a piantarti nel mare”, ed esso vi obbedirebbe» (Lc 17,6b)
E allora la risposta di Gesù, che sembra dura e sconclusionata, acquista il suo senso e il suo spessore. Gesù non rifiuta la preghiera degli apostoli, ma apre un varco che rimette al centro la potenza divina.
Basta la fede grande quanto un granello di senape, quanto un seme piccolo e quasi impalpabile. Basta, perché la fede è dono divino, è grazia che ci precede, è presenza che ci accompagna. Basta allora una piccola apertura del cuore, una fessura nella nostra vita perché quel piccolo seme compia portenti che non riusciamo a pensare e a progettare.
Può forse un gelso, con le sue forti radici, sradicarsi da sé e piantarsi in mare? No! Come non può un uomo sradicare se stesso, rinunciare alle sue sicurezze e convinzioni, per piantare, nel cuore del fratello, che sbaglia la misericordia e il perdono, l’abbraccio e l’accoglienza.
Ed è allora che nasce il prodigio: basta la fede grande quanto un granello di senape per sovvertire la vita, per sradicare i cuori arenati, per mobilitarci nelle nostre paralisi, per compiere ciò che è impensabile, per realizzare spostamenti che rimettono in questione gli equilibri accettati tacitamente. Quelli per cui i colpevoli vanno condannati, i ricchi sono premiati, i potenti sono beati.
Quando avremo fede sarà il momento in cui un piccolo granello di senape reggerà il mondo e lo renderà nuovo, movimenterà la vita e rinnoverà la storia.
È la fede a fare prodigi, a rendere la vita di ognuno lo spazio di meraviglie divine, di movimenti imprevisti.
Ci vuole poco per compiere il molto. Basta una piccola fede, perché la fede non è capitale su cui contare, non è accumulo per vantare meriti, non è investimento da far valere.
La fede è piccolo seme che rende capaci di grandi cose, la prima delle quali resta sempre il perdono. Perché perdonare è sempre divino, è sempre partecipare alla creazione, essere partecipi di un tempo nuovo, in cui l’altro rinasce puro e innocente nonostante il peccato, libero e vero nonostante il passato.
E non basta ancora. A queste parole Gesù ne aggiunge altre che ci conducono più lontano.
Chi di voi, se ha un servo ad arare o a pascolare il gregge, gli dirà, quando rientra dal campo: “Vieni subito e mettiti a tavola”? Non gli dirà piuttosto: “Prepara da mangiare, stríngiti le vesti ai fianchi e sérvimi, finché avrò mangiato e bevuto, e dopo mangerai e berrai tu”? Avrà forse gratitudine verso quel servo, perché ha eseguito gli ordini ricevuti? (Lc 17,7-9)
No, nessuno di noi farebbe questo. Il servo è pagato per fare il suo servizio. Nessuno di noi può provare gratitudine verso il servo che ha eseguito gli ordini ricevuti: ha solo fatto il suo dovere.
Eppure sono strane queste domande. Ricordano lo stile e la logica umana e, insieme, fanno venire alla mente, lo stile e la logica di Dio. “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli; in verità vi dico, si cingerà le sue vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli” (Lc 12,37).
Gesù ha già annunciato lo stile divino, ha già rivelato il volto di un Dio che è diverso dai volti dei signori umani. Egli fa mettere a tavola i suoi servi e passa a servirli.
Ma ora sembra che Gesù si contraddica, che riveli un volto di Dio diverso e quasi cambiato.
Dobbiamo tenere insieme le parole di Gesù e abitare la loro distanza, restare in quel vuoto che sembrano aprire. Qual è lo stile di Dio?
Così anche voi, quando avrete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: “Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare” (Lc 17,10)
Bisogna fare ciò che ci viene ordinato. Bisogna amare e perdonare, bisogna vivere la via della croce, bisogna servire Dio e i fratelli.
E bisogna sempre sapere e tenere a mente che tutto questo non ci permette di vantare meriti o privilegi, non ci rende giudici e giustizieri, non ci permette di chiudere il cuore ai fratelli che sono altrove e che hanno scelto di non restare al servizio di Dio.
Servire Dio e restare fedeli alla sua Parola non è nostra opera e nostra conquista. Abbiamo fatto soltanto quello che dovevamo fare e non ci importa che gli altri non lo abbiamo fatto. Per questo non possiamo sentirci migliori di loro, più avanti e più meritevoli.
Ci dà fastidio sentire che siamo “servi inutili” e a poco serve giocare con le parole, smussare e sistemare il tono di una parola che resta forte e indigesta. Siamo inutili! Siamo buoni a nulla! È questa, in realtà, la traduzione più giusta e più adatta. Siamo servi buoni a nulla, inutilizzabili.
Se siamo capaci di servire e di fare le cose che Dio ci chiede, quindi, è solo per la forza che viene a noi dalla fede, dal nostro affidarci a lui, dal nostro sentirci nelle sue mani. Siamo servi inutili perché non abbiamo meriti da vantare. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare, ossia rendere viva la fede che Dio ci ha donato.
Ed è così che egli può passare a servire quelli che ha scelto come suoi servi, ma questo è solo grazia e suo dono, è solo sua amorevole cura.
L’atteggiamento che Gesù chiede è, in sintesi, l’opposto di quello del fratello maggiore della parabola. Anche lui ha sempre fatto ciò che gli è stato chiesto. Anche lui ha servito per anni il padre restando nella sua stessa casa. Ma, proprio per questo, non sa più vedere il fratello minore e non vede nemmeno il volto del padre. È tutto preso dalle opere e dai servizi che ha fatto. Sa vedere solo i meriti che crede di aver accumulato: “rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici” (Lc 15,29).
Il suo restare in casa e al servizio del padre lo ha reso altero ed esigente, presuntuoso e arrogante. Non ha saputo accogliere, in quel servizio, la grazia che il Padre gli stava donando, l’amore e la bontà che riceveva.
Da soli siamo servi inutili e buoni a nulla ed è per questo che siamo chiamati a diventare figli affidabili, che amano servire Dio amando il fratello, dando amore e perdono, diffondendo i prodigi che solo la fede sa compiere. Basta la fede a sradicare un gelso, basta la fede a rendere la vita un incontro d’amore.
Ed è bello che la storia dei servi inutili prosegua subito dopo (lo leggeremo domenica prossima) con la vicenda dei dieci lebbrosi. Cristo vive ciò che ci chiede. Si fa servo sanando e purificando dieci lebbrosi dal male. Solo uno di loro, però, torna indietro a ringraziare.
Non basta, quindi, servire, occorre imparare a non servirsi del proprio servizio. Ed è per questo che occorre ricordare che solo la fede smuove ogni cosa, rende possibile l’amore e il perdono. È la fede a renderci servi ed è la fede a ripeterci che siamo figli. Non abbiamo bisogno di ricompense e riconoscimenti, non abbiamo bisogno di mostrarci duri contro quelli che sbagliano e sono lontani. Non abbiamo bisogno di accumulare crediti e benemerenze.
Siamo servi senza valore. Perché l’unica cosa che ci rende grandi è essere figli e diventare fratelli. E questo ci basta! E per questo basta la fede grande quanto un granello di senape, perché è la fede a fare i prodigi, a rendere concreti i miracoli dell’amore e del perdono.
Custodisci, mediante lo Spirito Santo che abita in noi, il bene prezioso che ti è stato affidato (Tm1,14)