Parola

Salire sui monti

II di Quaresima B (Gn 22,1-2.9a.10-13.15-18; Rm 8,31b-34; Mc 9,2-10)

La seconda domenica di Quaresima ci spinge a salire su tre monti diversi, tre luoghi alti che rifanno la storia. Dal deserto dell’inizio ai monti del compimento, perché già ora ci è dato di vivere ad altezze che non speravamo. Il Mòria, il Tabor e il Calvario, tre alture in cui si concentra il mistero, si dice l’amore, si compie la fede e Dio si dona.

Ed è su queste alture che dobbiamo sostare se vogliamo vedere la vita trasfigurata e cogliere, nella notte e nel buio, i primi barlumi di una luce risorta.

Dio mise alla prova Abramo e gli disse: «Abramo!». Rispose: «Eccomi!». Riprese: «Prendi tuo figlio, il tuo unigenito che ami, Isacco, va’ nel territorio di Mòria e offrilo in olocausto su di un monte che io ti indicherò» (Gen 22,1-2)

Il primo monte, quello di Abramo, è vetta umanamente incompresa. Ci troviamo di fronte a un Dio che chiede ciò che ha donato. Mette alla prova perché Abramo deve imparare a riconoscere che il Dio in cui crede è davvero affidabile e il futuro è promessa che non viene meno. Ciò che l’uomo stringe e vuole possedere è destinato a morire, vivo per sempre è solo ciò che si riceve dalle mani aperte di un Padre che nulla trattiene.

La richiesta di Dio è smisurata: inganno folle o esigente pretesa? Chiede un figlio in sacrificio, quello unigenito e amato. Chiede di consegnare il futuro nelle sue mani, perché soltanto in lui il futuro si fa possibile. Abramo ha coraggio a salire sul monte, a portare lì il figlio, a darlo in offerta sperando ancora che ogni speranza non vada delusa. La richiesta di Dio vuole insegna ad Abramo ad essere padre, a liberare il figlio avuto.

È messa alla prova perché vivere è questione di scelta. E per vivere, non ci sono umane speranze, si può solo rimettere a Dio la propria storia, consegnarla nelle sue mani. Il futuro non è possesso e non è conquista, è dono che si accoglie, giorno per giorno. Ogni giornata è strappata alla morte perché c’è un Padre che ridona vita. Ogni futuro è reso possibile, ora e per sempre, da un Dio che accoglie ciò che noi siamo e ci restituisce speranze impossibili. Abramo crede oltre la notte, perché sa stare in quel buio fitto in cui tutto sembra perduto. Abramo affronta la fatica della salita, predispone ogni cosa per compiere il dono con cui affida se stesso e il suo futuro nelle mani di chi lo ha donato. Ma poi tutto deve fermarsi.

Non sarà Isacco a morire sul monte, non è il tempo del sacrificio. E solo allora, quando Abramo si dispone a rinunciare al figlio, a non tenerlo come sua cosa, a non vederlo come possesso, solo allora diventa padre per sempre, padre di quelli che avranno fede. Perché la fede è proprio questo: rinunciare a tutto per avere ogni cosa, sperare la luce nella notte buia, attraversare il deserto contando su una parola che, spesso, non comprendiamo eppure, proprio allora, ci fidiamo di un Dio che ci chiede l’assurdo. 

In questo racconto, però, che non smette di dire, c’è già il segno di un futuro inatteso. “Non è ancora tempo per un sacrificio di sangue. Giungerà quel tempo, alla fine, quando un Padre, l’unico vero Padre, non si tirerà indietro davanti alla scelta di sacrificare il proprio Figlio, quello davvero unigenito e unico, per dichiarare e mostrare l’amore che non si risparmia e nulla possiede.

Solo quando il tempo sarà compiuto, il Cristo, novello e vero Isacco, sarà offerto sull’altare della croce per mostrare la fedeltà di un Dio che è Padre, di un Dio che davvero provvede all’agnello per il sacrificio, un sacrificio non richiesto dalla sua fame di sangue e dalla sua voglia di potere, ma dal suo desiderio di essere dono e amore che non si risparmia e tutto si consuma e si dona.

Abramo, senza spargere sangue, ha dimostrato e vissuto la sua fedeltà a Dio; Dio spargendo il sangue del Figlio, dimostrerà e vivrà la sua fedeltà all’uomo” (cf Una storia di fede, Abramo) . Sarà Dio a donarci suo figlio, un sacrifico che la mente non regge. È Dio a donarsi all’uomo, in un’offerta cruenta e finale, perché il vero amore ha il sapore del sangue, del sacrifico che non viene meno, dell’offerta che resta fedele.

Amare è sempre questione di morte, perché è vita spesa perché l’altro viva, dono che è dato a chi lo rifiuta. Il Mòria e il Golgota sono monti che si guardano e si comprendono. Sono i monti dei Padri, il primo di Abramo, che riceve ancora il futuro del figlio perché si è fidato a metterlo tutto nelle mani del Padre, il secondo di Dio, che consegna il Figlio perché nascano i figli, perché ognuno veda quanto è amato dal Padre e riscopra in Dio il volto che libera e rende viva la vita futura. Quella che si prova sul Golgota è vertigine folle, che facciamo fatica a comprendere appieno.

Se sul Mòira Abramo è messo alla prova, sul Golgota è Dio a dare prova di quanto il suo amore sia pieno e fedele, sia totale e senza pretese.

Se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? Egli, che non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi, non ci donerà forse ogni cosa insieme a lui?  Chi muoverà accuse contro coloro che Dio ha scelto? Dio è colui che giustifica! Chi condannerà? Cristo Gesù è morto, anzi è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi! (Rm 8,31b-34)

E dal Golgota si vede bene che non c’è bisogno di altre prove: non c’è amore più grande di questo. Dio non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha consegnato per tutti noi e con lui ci ha donato ogni cosa. Guardando al Cristo, crocifisso e risorto, noi scopriamo che Dio nulla trattiene e tutto è dono, non meritato. Sul Golgota, cessano le condanne e le accuse. Dio si è messo dalla nostra parte e difende ogni accusato. Se Dio è con noi cade ogni accusa, nessuno può essere contro di noi, nemmeno il peccato ormai ci è nemico. Anche quando i peccati ci accusano, Dio ci giustifica, ci rende giusti perché ci ama. Chi potrà condannarci? L’unico che ne aveva la forza, ha scelto di essere condannato per noi, di prendere su di sé il nostro peccato. Il male, tutto il male del mondo, è racchiuso in quel corpo del Cristo morto e risorto. Su quel monte glorioso, l’Agnello ha sconfitto il male, il peccato che insidia la vita, ha affossato la morte. E da quel giorno, su quel monte di morte, ogni sconfitta può cantare vittoria.

Sei giorni dopo, Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte, loro soli. 
Fu trasfigurato davanti a loro e le sue vesti divennero splendenti, bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche. E apparve loro Elia con Mosè e conversavano con Gesù.

E poi il Tabor, parentesi di luce, alto monte per riprendere fiato. Da lì si vede ciò che sarà, lì ogni cosa è trasfigurata, vestita di una luce che non conosciamo. Lì ogni cosa si vede compiuta. Gesù fa vedere il destino di gloria. Penetra, lungo il cammino, un po’ della luce che abbraccia la morte e la redime. Mosè ed Elia insieme a lui, perché ogni parola in lui converge, ogni evento in lui si compie. 

Sei giorni dopo, narra il vangelo. Sei giorni prima c’era stato l’annuncio della via della croce e l’invito a restargli dietro, a seguirlo lungo il cammino. E sei giorni dopo, Gesù fa intravvedere il giorno pasquale, il giorno che è vita di ogni altro giorno. La Pasqua è lo sfondo di questa vita, è lo scenario delle nostre azioni, è il fondale su cui viviamo. Possiamo non vederlo e non accorgercene, eppure dalla Pasqua filtra luce nelle nostre notti. Filtra luce in questo cammino che con fatica sale sui monti, quello su cui ci affidiamo a Dio, quello su cui Dio si affida a noi e quello ultimo in cui noi e Dio saremo rivestiti della stessa luce.

Venne una nube che li coprì con la sua ombra e dalla nube uscì una voce: «Questi è il Figlio mio, l’amato: ascoltatelo!». E improvvisamente, guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo, con loro. 
Mentre scendevano dal monte, ordinò loro di non raccontare ad alcuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti. Ed essi tennero fra loro la cosa, chiedendosi che cosa volesse dire risorgere dai morti.

Viene una voce dal cielo a dire che quel Gesù è il Figlio, l’amato, come Isacco destinato a morire, che quell’uomo è il Figlio e per questo bisogna ascoltarlo. Bisogna ascoltare le sue parole e mettersi alla scuola del suo cammino. “Ascoltatelo!”, dice il Padre dal cielo, ascoltate la sua voce, ascoltate il suo grido, ascoltate la sua passione d’amore. Non c’è bisogno di portenti e fenomeni, ci basta lui e la sua parola. Ci basta lui per affrontare la vita, per affrontare ciò che temiamo. Perché anche noi, come i discepoli, facciamo fatica ad accettare che Dio ha scelto la morte, ogni morte che viviamo in vita, come grembo in cui germoglia il futuro, come via che porta alla luce. Ci chiediamo, con i discepoli, cosa significhi risorgere dai morti, non lo sappiamo, ma lo viviamo ogni volta che, lungo il cammino, ci fidiamo di lui. Dio è luce e nube insieme e anche il buio è sua dimora. E noi sappiamo che la luce pasquale ci consente di vivere il buio, di trasformare le nostre tragedie, di proseguire il nostro cammino. E già ora e già qui, possiamo vedere, di tanto in tanto, lembi di luce e risurrezione, perché è la Pasqua che dà vita alla vita.  

Ci vuole coraggio per salire sui monti.
Portaci allora sul Moira, 
dove ci chiedi di non risparmiarci,
di non possedere la nostra storia,
di non trattenere il nostro futuro.
Donaci fede per saperci fidare. 
speranza per volerci affidare,
amore per poterci donare.
Facci coraggio per sopportare 
il brivido di restare sospesi 
sul baratro della rinuncia 
sul ciglio della sconfitta,
sull’abisso della morte.

E portaci allora su un alto monte.
Facci gustare, almeno ogni tanto,
la luce che filtra nel buio,
la vita che attraversa la morte,
la gioia che lambisce il dolore.
Donaci momenti trasfigurati,
nei quali possiamo vedere
i lembi luminosi delle tue vesti
in mezzo alle nostre prosaiche giornate.
Fatti trovare e sentire Risorto
perché accogliamo il tuo invito a seguirti,
perché sappiamo abbracciare la Croce
e diventi sicuro e deciso il cammino. 

E portaci quindi sul Golgota,
per conoscere che nulla per te hai trattenuto,
per vedere che il Padre non ti ha risparmiato.
Sei il Figlio di Dio, l’amato,
e noi ti vogliamo ascoltare.
Vogliamo ascoltarti anche quando gridi da solo
e chiedi il perché di ogni abbandono.
E in quel grido ritroveremo ogni voce
che grida, che lotta e che soffre.
E sapremo che sei morto, anzi risorto
perché ogni grido si tramuti in canto,
ogni ferita diventi sorgente,
ogni morte conduca alla vita. 

A noi, che conosciamo le morti,
dona il coraggio di salire sui monti
per sapere che tu sei per noi,
proprio mentre tutto 
sembra contro di noi.
È lì che possiamo vedere 
la nube che manifesta la Gloria,
la tenebra che mostra la Luce,
la Croce che dona la Vita,
la Pasqua che trasforma la storia.

Amen.

Liturgia della Parola

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