Parola

In cerca di un pastore

IV Domenica di Pasqua B (At 4,8-12; 1Gv 3,1-2; Gv 10,11-18)

Ci vuole coraggio e una dose d’incoscienza per ascoltare ancora la storia del pastore e delle pecore, del gregge e dei recinti. È un bagno di umiltà la Parola. Ci immerge nella verità di ciò che siamo e viviamo. Ci fa guardare dentro, ci priva dei mondi e dei concetti che abbiamo costruito e ci fa vedere, nuda come è sempre, la carne vera della nostra umanità. 

E allora dobbiamo lasciarcelo ridire senza preamboli: abbiamo bisogno di un pastore, ci serve una guida che sappia orientare i nostri passi, che sappia condurci e tenerci vicini, che sappia difenderci e proteggerci da tutto, persino dalla stessa vita.

E allora con il coraggio di vedere ciò che già sappiamo e proviamo a nascondere, lasciamo che la Parola ci dica di Lui e poi dica anche di noi.

Io sono il buon pastore (Gv 10,11a)

Gesù si rivela come il Pastore di cui abbiamo bisogno. Ci fa bene sentirci ripetere che c’è un Pastore e che è l’unico vero. Ci fa bene perché, al di là di ogni dolcezza, ci ricorda che ne abbiamo bisogno! Ed egli rivelando la sua identità ci mostra anche la nostra. 

Abbiamo elevato a valore il saperci individui, autonomi, liberi e separati dagli altri, ciascuno bastante a se stesso. E poi ci ritroviamo a leccarci le ferite, rinchiusi nelle verità presunte che abbiamo elevato a torri di difesa e di attacco. Siamo incapaci di riconoscerci e di saperci vicini, sempre attenti a difendere quella che chiamiamo libertà e autonomia e che è il bel nome che diamo al nostro essere ondivaghi, senza meta e senza strada, senza scopo e senza senso. 

Ci siamo separati dagli altri per non essere gregge e rischiamo di diventare gregari, massa senza nomi e senza volto, sempre alla ricerca di un ideale di turno o di una battaglia che ci faccia sentire vivi, di un leader al quale affidare la sorte e con essa il bisogno di sentirci utili. Vorremmo essere liberi, senza una guida e un pastore, e poi smaniamo per conquistare l’attenzione del primo mercenario di turno, che sia persona o ideale, idea o ideologia, progetto o riforma, visione o conquista. E saremmo pronti per questi a dare persino la vita, soprattutto quella degli altri.

Il buon pastore dà la propria vita per le pecore (Gv 10,11b)

C’è un Pastore vero, che vede che non possiamo e non sappiamo fare da soli e, invece di sfruttare a suo vantaggio la cosa, mette in gioco e mette a rischio la sua vita perché ogni pecora possa avere la vita ed entrare nel gregge.

E allora vivere e accogliere la Pasqua è sapere che c’è un Pastore al quale importiamo, uno che ci ha a cuore, uno che non si serve di noi, ma si pone al nostro servizio, al punto da far diventare nostra la vita che è sua. 

Abituati e scottati da tanti mercenari, da tanti che ci hanno conquistati, umiliati, prezzati, abbandonati e dispersi, facciamo fatica a pensare che ci sia una logica nuova. C’è qualcuno che ci riconosce per quello che siamo e, invece di usare la nostra vita per sé, è disposto a mettere in gioco la sua vita per noi.

Sapersi e riconoscersi pecore non è sminuire un’identità, non è limitare le potenzialità, non è nemmeno rinunciare alla libertà. Riconoscersi pecore è sapere che non siamo in grado di badare a noi stessi, di liberarci da soli, di moltiplicare da soli la vita che è in noi. Abbiamo bisogno di essere amati perché solo quello ci tiene in vita. Riconoscersi pecore è sapere che ci perdiamo per strada, che non sappiamo avere la meglio sui lupi, che siamo sempre a rischio di disperderci e perderci. E alla fine bisogna con amore e franchezza che qualcuno ce lo ricordi. O ci lasciamo guidare da lui o ci sarà sempre un mercenario, al quale non importa nulla di noi, che ci lascerà dispersi e rapiti.

Il Pastore vero ha una vita, la sua, da donarci e da mettere in gioco. Per questo possiamo fidarci, per questo possiamo affidarci. 

Conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. (Gv 10,14)

Siamo suoi e a lui importa di noi perché siamo legati a lui da una conoscenza che parte dal Padre e raggiunge ciascuno di noi. Non quella conoscenza limitata e asfittica della mente, ma quella piena e sempre nuova dell’amore, che unisce e rende vivi, che libera e crea legami.

Siamo investiti da una cascata di conoscenza, che è uno dei nomi dell’amore, che ci avvolge e ci supera. Dal Padre al Figlio, dal Figlio a noi e da noi al Figlio in quello scambio dell’unico Amore che crea comunione e rinnova la vita.   

È la Pasqua la sorgente di questa conoscenza amorosa che ci rende vivi, ci rende un unico gregge e ci libera dalla smania dell’individualismo, dell’identificazione, dell’autosufficienza e della contrapposizione. Siamo pecore perché abbiamo un Pastore che non ci toglie la vita, non prende da noi, non annulla chi siamo. Possiamo fidarci perché non ci chiede di rinunciare alla vita ma di accoglierne una più alta, più vera e più libera. 

Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! (1Gv 3,1)

Siamo davvero figli di Dio! Lo siamo realmente. Lo siamo nella carne, nella storia e nel tempo. Già ora e già qui. Lo siamo per il grande amore che il Padre ci ha dato, amore che possiamo vedere e toccare nel Figlio, amore che possiamo conoscere, vivere e rendere vero se lasciamo che l’amore del Padre ci renda fratelli. 

E allora è inutile contrapporre e dividere amori. C’è un solo unico amore, quello del Padre che si è fatto dono concreto nel Figlio. È quello l’amore che possiamo donare agli altri diventati fratelli, agli altri diventati con noi un unico gregge. L’amore ci precede e ci dà forma. 

Rischiamo di fare il gioco dei mercenari quando immaginiamo di dover creare comunione partendo da noi. Al primo fallimento, alla prima delusione, al primo contrasto abbandoniamo il resto del gregge e ci resta la fuga per ammaliare altre pecore. Idee e teorie, logiche e tecniche, progetti e percorsi hanno senso solo se diventano strumenti umani che aiutano e stimolano a sentire e rendere vivo il dono d’amore che ci fa figli e fratelli. Solo quello basta per essere gregge e poi ascoltare la sua voce e lasciare che egli ci guidi sui sentieri complessi del vivere.

Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore (Gv 10,16b)

Questo Gesù è la pietra, che è stata scartata da voi, costruttori, e che è diventata testata d’angolo (At 4,11)

Si può essere un solo gregge, si può edificare una comunità, si può vivere la comunione solo attorno alla pietra angolare, solo se si ascolta la voce del vero pastore. Non c’è unità, non c’è comunione, non c’è Chiesa e, forse, nemmeno amore, se non riconoscendo che tanti costruttori hanno fallito e continuano a farlo perché hanno scartato la pietra angolare e hanno messo a tacere la voce del pastore. È facile cadere preda del fascino dei mercenari, di altre voci suadenti e serene, è facile pensare di mettere come pietra angolare una idea più nostra e più nuova. Abbiamo tante parole, tanti fondamenti e teorie che sembrano andar bene per costruire qualcosa che sia bello ed eterno. 

Eppure non si può costruire se non partendo da lui, non si può riunire se non ascoltandolo, non si può ricreare se non accogliendo la vita che lui continua a donarci.

E questa unità, questa comunione, questa Chiesa, questa umanità rinnovata non nasce per impegni e progetti, per visioni lungimiranti, per ancoraggi nel passato glorioso e nemmeno perché si sognano rivoluzioni o riforme che rendano possibile ciò che oggi ci appare lontano. 

La comunione non nasce a tavolino, non emerge dalle nostre carte, nemmeno dalle nostre teste e nemmeno dai nostri sentimenti. Tutto questo non nasce davvero da noi. La comunione e l’amore hanno nella Pasqua la loro fonte: è la pietra scartata che è diventata pietra angolare. E lui vede pecore da guidare lì dove noi vediamo nemici. 

Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui (1Gv 3,1b)

Siamo pecore e siamo figli, legati al Padre perché il suo amore pasquale ci ha tratto fuori dall’anonimato, da ciò che è perduto, da ciò che è mercato, da ciò che è senza volto e senza storia. Siamo figli perché ci conosce, ci ama e chiama per nome. 

Eppure il “mondo” non ci conosce e non ci ama. E allora giochiamo al ribasso, ci coglie la voglia di assumere i tratti del “mondo”, di farci simili agli altri, di rinunciare al nome di figli, al nostro essere pecore. 

E forse, nonostante il nostro disappunto, dovremmo saperlo. Se siamo figli non possiamo essere amati dal “mondo”, da ciò che è mondano e segue logiche altre, diverse e opposte a quelle di Dio. Dio ama tutti gli uomini, “Dio ha tanto amato il mondo”, ma c’è in noi e attorno a noi un “mondo” che ancora non conosce (ama) Dio e quindi non può conoscere (amare) i suoi figli.

E allora quando ti starà stretto l’essere figlio, l’essere pecora, l’essere uno nel gregge, piuttosto che andare lontano, che rivendicare libertà e autonomia, fermati e lascia che la parte di “mondo” che è in te sia raggiunta dal grande amore del Padre. 

E poi non ti resta che essere nel mondo eco e presenza del pastore vero, Figlio che sa donare l’amore che ti ha reso figlio. 

E sarà lui a fare il resto! 


Liturgia della Parola

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