Parola

Un sacrificio che diventa banchetto

Santissimo Corpo e Sangue di Cristo Anno B (Es 24,3-8; Eb 9,11-15; Mc 14,12-16.-22-26)

La festa del Corpo e Sangue di Cristo ci presenta il centro della nostra fede, la meta della nostra vita, il fulcro da cui origina e a cui protende la vita cristiana. In realtà, è sempre la Pasqua che celebriamo. L’Eucaristia, infatti, è dono di grazia che discende per noi dalla croce. È offerta e sacrificio che rinnova relazioni perdute, raduna nemici e dispersi, rende fratelli e consanguinei. L’Eucaristia è il banchetto pasquale, sacrificio che rinnova ogni cosa, amore donato che si moltiplica. 

Celebrare il Corpo e Sangue di Cristo è celebrare la comunione che ci rende Chiesa, segno e promessa di una comunione che abbraccia ogni tempo e luogo. Ciò che celebriamo, quindi, non è semplice simbolo o rito, rimando o memoria, è presenza che assume e risana la storia e la vita, è dono che riaccende il futuro, è spazio aperto che ci innalza al mistero di Dio poiché è Dio che si abbassa alla nostra realtà. Per il mistero dell’Eucaristia, tutta l’umanità, di ogni luogo e di ogni tempo, può sperimentare una unione più vera e più salda, la pace sperata, il perdono richiesto, la santità desiderata. Mistero della fede, diciamo, ma non come ciò che è nascosto e incomprensibile, ma come ciò che è sempre troppo e oltre perché sia colto, compreso e vissuto appieno. È mistero della fede perché è dono che solo Dio può rivelarci.

L’unità e la comunione, la festa e la condivisione, il perdono e la riunificazione non nascono da noi. Noi abbiamo soltanto mille cose che ci dividono, mille conflitti per cui combattere, pretese da difendere, distanze da mantenere. Ed è qui, nel cuore delle nostre divisioni, che Cristo si mette in mezzo, si porta in mezzo a questo mondo lacerato e, a tutti, offre se stesso, il suo corpo e il suo sangue, la sua vita e la sua morte. Ed è per quel sacrificio, per quell’offerta che di ogni tradimento sa fare consegna che noi possiamo ritrovarci fratelli, nonostante le tante distanze, commensali oltre ogni divisione. 

Mosè scrisse tutte le parole del Signore. Si alzò di buon mattino ed eresse un altare ai piedi del monte, con dodici stele per le dodici tribù d’Israele. Incaricò alcuni giovani tra gli Israeliti di offrire olocausti e di sacrificare giovenchi come sacrifici di comunione, per il Signore (Es 24,4-5)

I sacrifici antichi, quello di Mosè e tutti gli altri, sono solo segni e promesse, gesti che narrano e anticipano il sogno e il dramma di Dio: essere alleato dell’uomo, legato a lui da un patto perenne. E noi sappiamo di non essere all’altezza del patto, di non riuscire a restare fedeli.

Bisogna superare la distanza, colmare il vuoto, vincere il peccato, la morte e l’abisso che separa Dio dal suo popolo. I sacrifici di comunione della prima Alleanza servivano a rendere visibile il desiderio di Dio e dell’uomo, il sogno che l’umanità ha sempre infranto: Dio e l’uomo uniti per sempre, partecipi della stessa vita.

Mosè prese la metà del sangue e la mise in tanti catini e ne versò l’altra metà sull’altare. Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: «Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di tutte queste parole!» (Es 24,8)

Egli entrò una volta per sempre nel santuario, non mediante il sangue di capri e di vitelli, ma in virtù del proprio sangue, ottenendo così una redenzione eterna. Se il sangue dei capri e dei vitelli e la cenere di una giovenca, sparsa su quelli che sono contaminati, li santificano purificandoli nella carne, quanto più il sangue di Cristo – il quale, mosso dallo Spirito eterno, offrì se stesso senza macchia a Dio – purificherà la nostra coscienza dalle opere di morte, perché serviamo al Dio vivente?
 (Eb 9, 12-14)

Nei sacrifici antichi, il sangue, segno della vita, è versato perché sia condiviso e donato, è asperso sull’altare e sul popolo. Il sangue dell’alleanza diceva, nel segno, che Dio e il popolo condividono la stessa vita, sono consanguinei e parenti. È il patto di sangue, in cui Dio si impegna a restare fedele al suo popolo, a condividere la sua vita con l’uomo, a rendere vivi gli uomini, a mettere in gioco la sua stessa vita perché gli uomini vivano della sua fedeltà. È sempre Dio ad impegnarsi nonostante le infedeltà di ogni tempo, è lui a schierarsi nonostante i tradimenti di sempre, è lui a scommettere. Il popolo doveva soltanto mettere a disposizione di Dio un pò della propria vita, un po’ del proprio gregge che, offerto e messo nelle mani di Dio, diventava segno capace di unirlo al suo Signore. Ma tutto questo era solo segno e rimando, anticipo e promessa.

Gesù, invece, entra nel santuario del cielo ottenendo, mediante il suo sangue, una redenzione eterna. I segni giungono al compimento. Ciò che prima era significato in lui è realizzato, ciò che era segno, anticipo e promessa diventa finalmente realtà.

Non più sangue di capri e vitelli, è di Cristo il sangue che viene versato, è suo il corpo che viene sacrificato. È sua la vita che ci viene donata. Non c’è perdono, se non attraverso l’effusione di sangue, perché a colui che è perdonato occorre una vita che sappia di nuovo, che sappia di dono, che sia vita nuova che scorre nelle sue vene. Ci vuole il sangue perché è solo Dio che può donare la vita e impegnarsi per sempre, solo lui può superare e trionfare su ogni tradimento e sopruso, su ogni infedeltà e adulterio. Ed è il Figlio a rimettere in circolo il suo sangue, facendone dono, perché diventi vita che scorre nella vita di chi lo riceve. 

L’ultima cena di Gesù rivela e rende perenne l’evento pasquale. Celebrare il corpo e il sangue di Cristo è possibile perché, nella Pasqua, i segni sono diventati realtà. Il corpo e il sangue di Cristo sono offerti perché sia compiuto il mistero, perché sia vissuta la comunione e il patto sia realizzato per sempre.

Egli è mediatore di un’alleanza nuova (Eb 9,15)

Prendete, questo è il mio corpo (Mc 14,22)

Questo è il mio sangue dell’alleanza, che è versato per molti (Mc 14,24)

Ci vuole un corpo e ci vuole il sangue perché sia celebrata la Pasqua, perché l’Alleanza sia eterna, perché le parole diventino vive, perché sia aperto per sempre il santuario, perché si possa servire non più gli idoli ma il Dio vivente.

Celebrare il Corpo e il Sangue di Cristo significa ritornare, ancora e sempre, alla Pasqua. È la Pasqua che deve essere mangiata, che deve entrarci dentro, che deve scorrere in noi, corpo nel corpo, sangue nel sangue. 

La Pasqua non ci è di fronte, ma ci è dentro come dono d’amore, come vita donata, come corpo spezzato, come sangue versato, come pane che nutre, come sangue che ridona vita. È questa la vera ed eterna alleanza. Il patto che lega per sempre Dio ad ogni uomo, lo lega perché egli ha scelto l’amore, perché egli ha scelto di fare ciò che noi non avremmo potuto, ciò che noi potevamo solo tentare e balbettare.

Non c’è banchetto senza sacrificio, non ha senso un sacrificio che non diventi banchetto. Non c’è comunione e non c’è banchetto se manca ciò che possa unire e rendere amici. Serve qualcosa che annulli ogni frattura, risani ogni tensione, cancelli ogni colpa e vendetta, renda amico ogni nemico.

Ogni comunione e banchetto, per non essere finzione e farsa, richiede che ci sia un sacrificio, che si compia cioè un dono, che qualcuno prenda qualcosa che è suo e lo ponga nel mezzo perché crei comunione. E solo il sacrificio di Cristo, significato, offerto e reso presente nel pane e nel vino, è capace di riunire ciò che è separato, di riconciliare ciò che è diviso, di creare amore e comunione lì dove c’è distanza e ferita.

È Cristo che, facendoci dono della sua vita, ci permette di fare esperienza di amore. È Cristo che sacrifica se stesso perché ci sia il banchetto della festa. Accostandoci all’Eucaristia, accogliendo in noi, nei segni del pane e del vino, la presenza viva del Cristo, crocifisso e risorto, noi facciamo comunione con lui e lui ci assimila a sé. E se questa è la nostra fede, allora è lui ad unirci a tutti, a renderci commensali di tutti, partecipi dello stesso cibo, fruitori della stessa vita, aspersi con lo stesso sangue. 

Ogni inimicizia è vinta, ogni distanza è superata, ogni conflitto è passato se crediamo al mistero di Cristo che ci dona il suo corpo e il suo sangue, rendendoci partecipi della sua vita, rendendoci figli della sua Pasqua.

E la Chiesa è solo questo e solo questo è chiamata a diventare l’umanità e tutto il creato: corpo vivo del Cristo vivente. A noi spetta solo mettere la nostra piccola parte, partecipare come possiamo e sappiamo perché il poco che siamo e che riusciamo a spezzare e a condividere sarà lo Spirito a trasformarlo, a renderlo vita divina, rendendoci conformi a Cristo. 

Dovremmo smetterla di ridurre il mistero dell’Eucaristia a faccenda personale e privata, a devozione sentimentale e spenta, a isolamento che ci allontana dagli altri, a questione che riguarda noi stessi. L’Eucaristia è sostanza che abbraccia la storia e il tempo, che unifica e consacra ogni cosa. È spazio divino in cui si assorbe e concentra la vita perché, dopo che tutto in quello spazio è penetrato e condensato, da lì possa uscire una forza centrifuga e nuova. L’Eucaristia è questo: accorrere per disperdersi, avvicinarsi per espandersi, unirsi per diffondersi. È incontro che si fa missione, partecipazione che si fa invio, comunione che, nascendo nelle nostre piccole chiese, si allarga ad abbracciare, la terra e il cielo.

Celebrare quindi il mistero del Corpo e Sangue di Cristo è celebrare Dio e l’umanità, il creato e ciò che esiste. Perché tutto è chiamato a diventare Eucaristia, segno sacramentale che dice l’amore, che narra e manifesta la comunione, offerta che cancella le distanze, dono che moltiplica il bene. 

È questa la nuova Alleanza, patto stretto tra il cielo e la terra, tra Dio e ogni uomo in cui Cristo prendere la sua vita e la condivide con noi, ci rende partecipi di tutto se stesso. E solo lui può fare comunione. E solo da lui possiamo imparare a rendere eucaristica la storia e la vita. Prendendo del nostro lo poniamo nelle mani di Dio perché sia offerto ai fratelli. Solo questo è il sacrificio gradito: prendere la propria vita, risorse, tempo, spazi, economie, sentimenti, stili e, attraverso i fratelli, metterli nelle mani di Dio, offrirli a lui in sacrificio perché, per le sue mani, tutto sia unito al sacrificio di Cristo e tutto sia donato ai fratelli e tutto sia Eucaristia, che fa di molti un solo popolo, dei lontani vicini, dei nemici amici.

Non basta celebrare il sacrificio nel rito, occorre lasciare che colui che ci nutre ci renda simili a sé, capaci di donare la vita, di vivere la comunione, di sperimentare il perdono, di offrire ciò che siamo e che abbiamo. Anche noi diventeremo sacrificio gradito a Dio, strumento, insieme a Cristo, di comunione e d’amore perché fluisca da Dio, in noi e in tutti, la stessa e unica vita.

Celebrare il Corpo e il Sangue di Cristo, infatti, mangiare quel pane e bere quel vino, ci chiede di entrare nella logica di Dio per conformare la vita al mistero che celebriamo.

Liturgia della Parola


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