Parola

Dio innalza l’albero basso

XI Domenica Tempo Ordinario Anno B (Ez 17,22-24; 2Cor 5,6-10; Mc 4,26-34)

Ci vorrebbe un po’ di sapienza per cogliere il senso di ciò che viviamo, per vedere in fondo le vicende in cui siamo coinvolti. È evidente che la fede sia in crisi, che il cristianesimo, dalle nostre parti, non sia più una forza. Il Vangelo ci appare dimesso, quasi nascosto tra tanti eventi, la Parola è taciuta o sussurrata tra altre parole. E anche noi facciamo fatica a fare la differenza. Proviamo fastidio a sapere che abbiamo perso visibilità, che veniamo ignorati e messi da parte. Vorremmo un po’ di attenzione. E, allora, ci diamo umanamente da fare. Pensiamo a nuove strategie, progetti e riforme. Tentiamo di inseguire mode e successi perché mal sopportiamo che altre idee e parole siano più alte e più forti di quelle che noi proponiamo. E ci dimentichiamo, invece, cose che dovremmo sapere. 

Gesù diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura» (Mc 4,26-29)

Il regno di Dio è così. Forza nascosta e imprevedibile, che sfugge ai criteri di efficienza e visibilità. È seme che cresce in segreto, in tempi su cui non abbiamo potere. Ci vuole fede in quel seme nascosto, gettato e immerso nel buio di ogni terreno. Non dipende da noi la sua crescita. Possiamo dormire o vegliare, di notte o di giorno, e quel seme germoglia e cresce e noi stessi non sappiamo come. Dovremmo avere l’assurdo coraggio di credere a questo Vangelo, a questo Dio immerso nella storia del mondo, a questo Regno che non ci appartiene. Non è in nostre mani e in nostro potere. È piccola e nascosta cosa, sfugge alle previsioni del mondo, non è soggetto ai nostri interessi, non ha le nostre priorità.

Mentre pensiamo, giustamente, a strategie e innovative missioni, a riforme e a nuovi cammini, dobbiamo però ricordarci di avere la pazienza di colui che semina. Arriverà il tempo del frutto maturo, arriverà senza il nostro intervento, arriverà senza il nostro merito. 

Il Regno non è in mano nostra, non agisce secondo gli schemi del mondo, non si misura con le statistiche e i criteri umani. È seme che segue percorsi strani, è vita che sboccia nuova soltanto dopo aver attraversato sentieri nascosti e sofferti. È cosi il Regno, come il corpo del Cristo, crocifisso e sepolto. È lui quel seme buono, gettato su ogni terreno. 

E questo terreno, umanità che ci appare ribelle e ostinata, produrrà spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Ci vuole fede nel seme e fiducia in questo terreno. Perché è proprio a questa umanità varia e indecisa, inaffidabile e confusa, che Dio affida se stesso. Non occorre la fretta né l’ansia, non servono stratagemmi e lusinghe, non serve impazienza e attivismo. Il seme germoglia e cresce da sé. 

A nulla serve aprire di tanto in tanto il terreno, impazienti di vedere il germoglio, a nulla serve tirare il piccolo ramoscello pensando che così cresca più in fretta. A volte, nella nostra impazienza, facciamo soltanto più danni. 

Il Regno è dono e grazia, è vita che si immerge nelle nostre storture, è futuro che si getta nelle nostre aridità, è Parola che incontra i nostri silenzi smarriti. 

Vorremo da Dio l’efficienza che abbiamo imparato nelle cose del mondo, e il nostro, invece, si offre come un Dio inefficiente, che non rispetta ciò che consigliano i sondaggi e le statistiche, non segue gli andamenti dei nostri listini. 

Questi sono i tempi, nella Chiesa, nell’annuncio, nella pastorale, nella vita, in cui ci serve una fiduciosa apertura al futuro. Mentre il Vangelo sembra aver perso attrazione, la Chiesa aver perso la sua capacità di animare e guidare la vita del mondo, c’è il rischio di non aver più fiducia nel seme, di non credere più che ci sia una Parola efficace, che cresce secondo lo stile di Cristo. E c’è anche il rischio di forzare i tempi, di agire per vedere i risultati, di fare la conta per verificare i successi. Ma non si possono applicare al regno le logiche che sono del mondo.

Certo occorre rinnovare l’annuncio, l’adesione al Vangelo e anche la Chiesa e la sua presenza nel mondo. Ma non possiamo pensare il rinnovamento a partire da logiche di mondano successo. Il regno di Dio non segue le logiche dei regni e dei successi del mondo. La preoccupazione per gli esiti dell’annuncio non può inseguire le leggi del mercato, non può cercare il consenso e il clamore. 

Ciò che occorre cambiare e riformare non può essere dettato da nostri bisogni o dal desiderio di vedere adesioni. Occorre restare fedeli e credere al terreno e al seme che in esso riposa. 

Non si può anticipare il futuro che solo Dio può preparare. È il frutto che si concede e si dona da sé. Il tempo della crescita è lungo e nascosto, silenzioso e oscuro, ma è quello il tempo in cui Dio agisce. 

È Dio che getta il seme anche quando siamo noi a prestargli le mani. Occorre, però, stare attenti a non ostacolarne l’azione, a non rovinare tutto con la nostra impazienza. 

La promessa di Dio è un seme gettato nei solchi della storia. Un seme che appare piccolo e di poca importanza.

Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra» (Mc 4,30-32)

Dio sceglie le vie più difficili, le strade meno frequentate, le strategie fallimentari. Il regno è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno. Il suo inizio è nascosto e umile. È vita che non si fa notare, è parola che resta sommersa da parole più forte e invadenti. Eppure, quel seme nascosto e più piccolo è destinato a diventare il più grande degli alberi. C’è una grandezza che si vede alla fine, una grandezza che non è dominio o prepotenza, ma accoglienza e servizio, offerta e dono. È così il regno, una grandezza che si offre in dono, una vita che si fa condivisione, un potere che si mette a servire.

La logica di Dio è sempre pasquale. In Gesù, uomo semplice e nascosto, vissuto lontano dai luoghi del potere, abbiamo visto il modo in cui Dio opera. Cristo, piccolo seme, insignificante e nascosto, immerso nel buio della morte e del sepolcro, è diventato per noi l’albero grande presso cui trovare ombra e riparo.

Questo allora deve darci coraggio, ridestarci alla gioiosa speranza. Non dobbiamo aver paura di essere piccoli, di sembrare insignificanti e irrilevanti. Non è la grandezza del potere, dei riconoscimenti e dei numeri che dice l’autenticità del nostro essere a servizio del regno. Non ci può spaventare il nostro essere ignorati e calpestati. È da questo presente, nascosto e dimesso, che Dio dà inizio al futuro del regno. È questo il modo in cui cresce la fede, è questo il modo in cui vive e si estende la Chiesa. Non ci sono scorciatoie, non sono ammesse vie che riducano il tempo e la fatica nascosta. 

Dio prende un ramoscello dalla cima di un grande cedro perché Dio è attento alle cose piccole, lo prende dalla punta dei rami per piantarlo, piccolo e insignificante, sulla cima di un monte alto e imponente. È la logica pasquale di Dio.

Così dice il Signore Dio:
«Un ramoscello io prenderò dalla cima del cedro,
dalle punte dei suoi rami lo coglierò
e lo pianterò sopra un monte alto, imponente;
lo pianterò sul monte alto d’Israele.
Metterà rami e farà frutti
e diventerà un cedro magnifico.
Sotto di lui tutti gli uccelli dimoreranno,
ogni volatile all’ombra dei suoi rami riposerà.
Sapranno tutti gli alberi della foresta
che io sono il Signore,
che umilio l’albero alto e innalzo l’albero basso,
faccio seccare l’albero verde e germogliare l’albero secco.
Io, il Signore, ho parlato e lo farò»
(Ez 17,22-24)

Liturgia della Parola


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