Ma t’importa di noi?
XII Domenica Tempo Ordinario Anno B (Gb 38,1.8-11; 2Cor 5,14-17; Mc 4,35-41)
Dopo il racconto delle parabole, dopo l’annuncio che il regno cresce da sé, che si può anche dormire mentre la vita nel segreto avanza e germoglia, che il regno è come un piccolo seme che muore e diventa grande e maestoso, ebbene, dopo le parole, la Parola diventa storia, diventa vita che coinvolge davvero. Non basta ascoltare, occorre anche lasciarsi coinvolgere in esperienze e fatti che, forse, vorremo evitare. Ma non si può evitare la vita, non si può scansare la morte.
E bisogna chiedersi allora: a che serve accogliere la Parola, a che serve la fede se la barca, la vita e la storia sono sempre a rischio di affondare e andare perdute, se le tempeste non cessano, se la vita non è mai quieta e la morte è sempre pronta a varcare l’uscio e a farsi padrona?
Venuta la sera, Gesù disse ai suoi discepoli: «Passiamo all’altra riva» (Mc4,35)
Arriva sempre la sera e con essa anche il buio. Arrivano sempre i momenti in cui tutto ci ricorda che ogni cosa è destinata a finire, ad essere inghiottita nell’ombra. Ed è proprio allora, quando ormai sembra essere sera, che l’invito di Gesù ridesta l’azione: “Passiamo all’altra riva”.
Ogni traversata, ogni passaggio, ogni varco che conduce altrove è sempre fatto nel buio, è sempre fatto quando tutto è nell’ombra. Passare ad altro, passare alla riva lontana è attraversare la sera, è squarciarla e con essa squarciare la vita. È al buio che si compie il passaggio, perché passare è sempre rischio e scommessa, è sempre promessa che porta lontano, è sempre accesso a qualcosa che sembra nascosto. La riva altra, quella verso la quale Gesù e i discepoli sono diretti, è riva ostile e lontana. Lì non ci si riconosce vicini o parenti, è riva pagana e anche nemica. E anche lì occorre passare, anche lì occorre arrivare perché la vita non resti monca, perché la Parola non diventi possesso. È sempre lì, su rive lontane e pagane, che bisogna arrivare perché è lì che bisogna gettare l’annuncio e il seme che rinnova la storia.
Lo presero con sé, così com’era, nella barca (Mc 4,36)
E i discepoli lo prendono sulla barca così com’era. Lo prendono così come si presenta. Non possono fare altro. E quanto sarebbe bello se anche noi non facessimo altro. Non si può selezionare, pulire o rendere altro quel Gesù che prendiamo e portiamo con noi. Non quello che di lui ci piace e ci attrae, non quello che condividiamo e sentiamo nostro, ma tutto lui, così come è. A volte ci appare vicino a volte lontano, a volte tenero e a volte urticante, a volte utile e spesso esigente. No, non dovremmo definire troppo Gesù, così come non dovremmo definire troppo nessuno. Prenderlo così come è e lasciare che sia come egli vuole essere, che dica ciò egli vuole, che faccia ciò che ritiene. Non un Gesù a nostra portata, non un Gesù modellino, già pronto per coincidere con noi, con le nostre misure e i nostri pensieri.
E noi e lui su un’unica barca. E cosa è altrimenti la vita? Cosa il mondo e la storia? Cosa la Chiesa? Stare io e te, noi tutti insieme con lui su un’unica barca, destinata ad attraversare la notte e con essa anche il mare. E sulla barca non possiamo restare lontani, non possiamo sentirci come fossimo soli, non possiamo pensare solo a noi stessi. La barca ci ricorda che non si resta vivi e a galla da soli, che non si attraversa la notte, non si vive e sopravvive da soli. Siamo sempre tutti sulla stessa barca perché il destino di ciascuno è legato a quello di tutti. E anche Dio ha legato il suo al nostro destino. È sulla barca con noi perché ci chiede di raggiungere ogni riva lontana. E noi e lui coinvolti in un’unica storia, in un unico dramma: attraversare il mare attraversando la notte.
Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena (Mc 4,37)
E non riusciremmo a contare le tempeste che investono la vita di ognuno e quella di tutti. Tempeste del cuore, del corpo, dello spirito e della stessa fede. Tempeste sociali, economiche e sanitarie. Tempeste di dolore e di morte, tempeste di povertà e di miseria, di sangue e di folle violenza. E in ogni tempesta noi siamo insieme. Insieme tra noi e insieme con lui. E anche la Chiesa è sempre in tempesta, sempre preda di venti e di onde, di acque che invece di accompagnarla sembrano sommergerla e farla affondare.
Siamo sempre sul punto di affondare, sul limite di disperare, di imprecare e di chiederci se davvero ne valeva la pena. Se davvero ha senso portarci appresso un Dio che si è fatto uomo, un Dio che ci chiede di portarlo su rive diverse, di accompagnarlo attraverso mari che sono sempre in tempesta.
E scopri che Dio non può essere “oppio dei popoli”, un calmante o un dolce anestetico. Anzi è colui che smuove la vita e la mette in subbuglio.
Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva (Mc 4, 38)
Ma a che serve credere in Dio? A che serve portarsi dietro il peso di un Dio al quale sembra importi poco di noi? A che serve, nel già tumultuoso compito di restare al mondo, imbarcare anche un Dio che non vede e non sente, che non fa nulla e non interviene? Dov’era Dio? Dove è Dio?
Gesù era a poppa, sul cuscino, a dormire. Mentre la tempesta avanza e la vita è in pericolo egli dorme sereno e beato.
E a poco serve un Dio che dorme, un Dio che ci mette in moto e poi dimentica di renderci facile il movimento, un Dio che chiede di esplorare vie nuove e insperate e poi si dimentica di vegliare e restare sveglio.
Eppure, dovremmo saperlo: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce” (Mc 4,26-27). Il regno cresce mentre la tempesta avanza e l’uomo dorme. Il regno cresce perché Gesù ha accettato il sonno della morte. L’immagine di Gesù, che dorme durante la tempesta, richiama il sonno della morte.
È nel suo abbandonarsi alla morte la nostra salvezza. Noi crediamo non nel Dio della potenza, ma nel Dio dell’abbandono. Crediamo in un Dio “inutile”, che dorme sulla croce e dorme sulla barca mentre infuria la tempesta. Ed è in quel sonno mortale la nostra speranza e la nostra salvezza.
Allora lo svegliarono e gli dissero: «Maestro, non t’importa che siamo perduti?» (Mc 4,38)
Ancora non so se sia preghiera o bestemmia, ancora non so se sia fede o disperazione. So però che anche a me sale a volte dal cuore il grido sfrontato e accorato: ma a te non importa nulla? Non ti importo io e non ti importano quelli che sono con me? Altrimenti non sarebbero persi, malati o già morti, falliti e sfiduciati, arresi o senza scampo.
Eppure so che dovrei fidarmi di lui, anche se dorme, anche se resta nascosto, anche se continua a tacere.
Dovrei sapere che egli dorme perché resta nascosto come il seme gettato per terra, che egli dorme perché morendo ha ridestato la vita, perché egli ha vinto ogni tempesta attraversando lui, da solo e per tutti, la notte più fonda e il mare più minaccioso.
Dovrei sapere che non devo aspettarmi che lui si alzi minaccioso come quella volta, so che dovrei restare sereno anche in mezzo al mare in tempesta, so che potrei anche adagiarmi accanto a lui sullo stesso cuscino.
Si destò, minacciò il vento e disse al mare: «Taci, calmati!». Il vento cessò e ci fu grande bonaccia (Mc 4,39)
E so anche che lui saprà ascoltare il mio grido, saprà a volte anche lasciarsi destare per ridestare la mia fede che ancora sonnecchia.
Quella notte egli prima minacciò il vento e poi impose al mare il silenzio e la calma. Prima fece ciò che serviva ai discepoli per essere in pace, per recuperare la vita e le forze. Ma poi rivolse loro due sole domande, sempre le stesse che ancora sentiamo e ci scavano dentro.
«Perché avete paura? Non avete ancora fede?» (Mc 4,40)
Sono domande che non attendono risposte facili, non sono domande da catechismo. Sono domande che smuovono e mettono a repentaglio la vita.
Perché avete paura? E di paura ne abbiamo ancora. Paura delle notti e del buio, paura di attraversare i mari calmi e quelli in tempesta, paura di passare altrove, paura di restare annegati nel profondo dei nostri dolori, delle nostre paure, delle nostre crisi e delle nostre quotidiane morti, anticipo e promessa di quella morte che ci sembra ancora la fine di ogni cammino. E come si fa a donare la vita, a metterla in gioco quando si ha ancora tanta paura?
E allora dobbiamo dichiarare le nostre paure, esporle e metterle in luce. Ogni paura che abbiamo non possiamo negarla o farla tacere. Dovremmo solo esporla davanti alla fede, quella piccola e incerta fede che abbiamo. E ogni paura più che portarci a disperazione, a imprecare o negare Dio, dovrebbe interrogare la fede, dovrebbe scuoterla e farla rivivere. Se il mare in tempesta, la notte e le onde continuano ad agitare la vita e la storia, ci resta soltanto continuare a chiederci: a che ci serve la fede? Non serve a rimettere ogni cosa al suo posto, non serve ad evitarci i pericoli, non serve nemmeno a limitare il dolore o a farci evitare la morte.
A che serve quindi credere in Dio nel mezzo di ogni tempesta?
Serve a scendere con lui e non più da soli nel profondo di ogni tempesta, nel cuore di ogni naufragio, nell’abisso di ogni dolore, nel sonno della nostra morte per scoprire che è lì, senza che noi lo sappiamo, che il seme cresce e dà frutti.
È lì, avendo egli attraversato il dolore e la morte, che egli ha compiuto la nostra salvezza, ha vinto ogni nostra paura. Ci ha mostrato che anche il male ha il suo limite perché lui per intero lo ha attraversato.
Chi ha chiuso tra due porte il mare,
quando usciva impetuoso dal seno materno,
quando io lo vestivo di nubi
e lo fasciavo di una nuvola oscura,
quando gli ho fissato un limite,
e gli ho messo chiavistello e due porte
dicendo: “Fin qui giungerai e non oltre
e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde”? (Gb 38,8-11)
Ha messo un limite al mare e alla morte, ha messo un chiavistello e due porte ad ogni dolore, ha messo un argine alla disperazione.
E non possiamo chiedere altro, non possiamo interrogarci a lungo se sia proprio necessario soffrire e morire, se sia giusto avere tempeste, se sia utile provare dolore. Non possiamo chiedere oltre perché lui stesso è entrato nel cuore di ogni tempesta e anche lì lo incontriamo e riconosciamo.
Occorre però guardarci da una tentazione diventata attuale. Quella di immaginare che possiamo oltrepassare ogni tempesta con un sonno che sa d’incoscienza e raggiro. Anche Giona, che fuggiva da Ninive per sfuggire al suo compito, incappò in una tempesta. La nave era agitata e sconvolta e Giona, che ne conosceva il motivo, si mise a dormire per sfuggire alla propria coscienza, per non vedere l’esito della sua scelta, per fingere una quiete che era solo fuga dalla vera realtà. Il sonno di Gesù nella barca in tempesta non è quello di Giona. E allora non possiamo far finta di non sentire o ignorare le onde e il mare in tempesta, i rischi e tutti i dolori. Non possiamo scappare dalla vita e dal mondo per non rovinare la nostra pace interiore, finzione creata per non lasciarci turbare dal dolore del mondo. Il non aver paura della tempesta ha poco a che fare con quella superiore calma a cui invitano i guru del mondo, con quella apatica indifferenza che nasce dal non aver a cuore la vita e la storia.
No, la fede non è superiore e cinica indifferenza, ma passione partecipe e accorata. Non possiamo sentirci superiori alla storia e ai travagli, non siamo stoici e impassibili alla vita, siamo credenti che si fidano del timoniere che dorme ed è a poppa, perché nella sua morte è diventato guida che conosce le onde e i marosi, che affronta con supremo coraggio anche ciò che sembra portarci al naufragio.
L’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro.
Cosicché non guardiamo più nessuno alla maniera umana (2Cor 5, 14-16)
È l’amore del Cristo che ormai ci possiede, perché egli è morto per noi. È lui che morendo ha messo gli argini e i chiavistelli alla morte, è lui che è morto per tutti perché noi vivessimo per lui che è morto e risorto per noi.
Possiamo quindi guardare le cose non più alla maniera umana, non più secondo i nostri criteri. Se noi siamo in Cristo siamo già oltre, siamo creature già nuove, già morte e risorte con lui.
E se a volte la paura è forte ed avanza, possiamo ancora gridare a colui che ci sembra impassibile e troppo lontano. Forse non metterà a tacere ogni male, non ci porterà spediti alla riva sicura, ma farà sentire forte il suo amore, la sua voce alta e potente che invita ancora alla fede, che invita ancora a vincere ogni paura, a superare ogni umano sconforto attraversandolo tutto.
E allora serve ancora credere in Dio, serve ancora urlarli in faccia il nostro volerlo con noi, il nostro volergli importare.
Eppure non sapremo la sua vera risposta, non sapremo se sarà ancora il mare ad essere messo a tacere o se saremo noi più forti e capaci di attraversare la notte. Sapremo però ciò che più conta: a lui obbediscono anche il vento ed il mare, a lui obbedisce la storia e la vita, a lui obbedisce perfino la morte. E anche un naufragio si trasforma in vita!
Se vuoi contribuire alle spese del sito puoi fare qui una tua donazione