Profeti del quotidiano
XIV Domenica Tempo Ordinario Anno B (Ez 2,2-5; 2Cor 12,7-10; Mc 6,1-6)
A volte ci sembra che sia finito il tempo dei profeti, di coloro che facevano udire chiara la voce, che scuotevano cuori e coscienze, che rendevano presente e visibile il futuro desiderato e sognato da Dio. Ci sembra che oggi anche l’annuncio sia un po’ addormentato, quasi prosaico, senza forza e passione.
Eppure anche il nostro è tempo di profezia, perché ogni tempo è visitato dalla presenza di Dio che manda profeti per narrarci e farci vedere la sua presenza nelle pieghe e nelle trame nascoste e spesso ignorate del nostro presente. Il profeta annuncia che la parola di Dio è viva e attuale, è parola che scende nei nostri vissuti, si incarna nelle nostre semplici storie. Il profeta vede le storie degli uomini e in esse ascolta la storia di Dio, sa riconoscerla e chiamarla per nome. E tocca anche a noi diventare profeti, testimoni credenti e credibili di una grazia che ci è stata donata, di una presenza che si è fatta vicina, di un Dio che si è fatto incontrare.
E invece di additare il mistero, spesso perdiamo tempo a fare le vittime, a lamentare insuccessi e disagi, ad accusare rifiuti e disprezzo. Vorremmo che tutti siano lì, pronti ad accoglierci e ad applaudirci, a dirci che è vero ciò che diciamo, a dirci che è santo ciò che viviamo.
Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. (Ez 2,3)
Ezechiele fu mandato ad un popolo ribelle e in rivolta contro Dio che lo aveva scelto e creato. Viene mandato a quelli che per Dio restano figli nonostante siano testardi e dal cuore indurito. E ci sembrano parole scritte per oggi.
Regna in noi troppa sfiducia o troppo rancore. Siamo sempre sul punto di dichiarare disfatta, di riconoscere che la fede non ha più presa sul mondo, che il Vangelo è roba ormai andata, che la Chiesa è tutta corrotta, che alla fine il mondo ha anche ragione, che Dio forse è morto per sempre. E allora tanto vale, per vivere in pace, rinunciare al Vangelo e alla fede e ridurla a benessere umano, a pratiche e pensieri terreni. È la fede ridotta a benessere psichico, a civica educazione e buongusto, a politica e opportunismo, ad affermazione di ciò che già siamo.
Oppure ci viene voglia di dichiarare che tutto è condannato, che anche Dio si è stancato e ha lasciato perdere la sua umanità e allora ci sembra di essere noi i suoi giustizieri, quelli pronti a lanciare verdetti, a punire il mondo in nome di Dio.
E nonostante l’incarnazione e la croce, spesso pensiamo che un profeta sia tale per il suo successo e il suo seguito. Dobbiamo superare la tentazione diabolica di inventare “profezie” a tavolino che hanno, in realtà, il sapore del marketing, lo stile degli spot pubblicitari, la forza dei consensi costruiti dando un occhio ai sondaggi. E così rischiamo di chiamare profezia ciò che è conforme al nostro pensiero e rispetta gli schemi della parte a cui apparteniamo e da cui ci aspettiamo consensi. E abbiamo profeti di destra o di sinistra, tradizionalisti o progressisti, del primato di Dio o del primato dell’uomo, dell’obbedienza o della libertà di coscienza. È facile cadere in queste trappole, in queste contrapposizioni umane che servono solo a restare comodi, rinchiusi nel proprio sentire e rincuorati nel proprio vissuto.
Siamo ancora figli testardi e dal cuore indurito. Incapaci di ascoltare parole che urtano il nostro sentire, che smuovono il nostro pensare, che mettono in crisi il già saputo, che, insomma, facciano davvero guardare tutto con occhi nuovi, quelli, appunto, di Dio.
Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito.Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”. Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro. (Ez 2,4-5)
Dio ha sempre a che fare con uomini testardi e in rivolta, conosce il rifiuto e l’opposizione. Non si adegua ai figli ribelli, non li asseconda nei loro capricci, ma è proprio i ribelli che egli continua a chiamare figli ed è a loro che manda profeti perché continuino a ricordare che Dio ha ancora qualcosa da dire. Per questo serve tanta fiducia per restare nel mondo e per aprire il cuore e la bocca, per annunciare col cuore e la vita che Dio ama i suoi figli ribelli.
E potrebbe sorgere il dubbio: perché esporsi al ridicolo, all’offesa e al rifiuto? Perché continuare e perseverare se alla fine nessuno ci ascolta? Perché si sappia almeno che anche in mezzo a costoro si trova un profeta, che anche nel pieno rifiuto Dio continua a parlare, perché egli continua ad amare i suoi figli, continua a farsi sentire, continua ad essere Padre. Davanti al rifiuto e all’ostilità ci vuole il coraggio di restare scoperti e di prestare il fianco.
Ed è questa la nostra consolazione. Per quanto possiamo essere anche noi ribelli e in rivolta, ci sono sempre in mezzo a noi vite e parole che hanno un sapore diverso, che indicano una storia che è rinnovata. Non siamo soli e perduti per sempre. C’è sempre in mezzo a noi un profeta, un dito che indica il cielo, un cuore che resta di carne, un gesto che racconta l’amore. Ci sono ancora traiettorie che spingono in alto, che prendono per mano la terra e in essa vedono il cielo riflesso. Ci sono ancora mani capaci di toccare la storia e di renderla santa, di guardare l’uomo e di riconoscere in lui un volto divino. Ed è da costoro che possiamo andare, perché ci insegnino che Dio si è fatto feriale, si è fatto compagno di strada e si è fatto cammino.
Fratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia. (2Cor 12,7)
Egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte. (2Cor 12,9-10)
Essere e dirci cristiani non ci rende migliori degli altri. E neanche il bene che riusciamo a vivere deve farci sentire più forti e potenti. Non abbiamo nulla di cui possiamo vantarci, perché tutto è suo dono e sua grazia.
Per questo davanti al disprezzo e al rifiuto o davanti al successo e all’approvazione non possiamo montare in superbia. A noi basta la sua grazia, il sapere che ciò che siamo è opera di Dio e del suo amore. Non possiamo tirarci indietro o lamentarci delle debolezze, degli oltraggi, delle difficoltà, delle angosce sofferte per Cristo. Anzi, è tutto questo a renderci certi della forza divina.
E Dio liberi i cristiani da ogni superbia perché non è nostro il successo e non è merito nostro se i cuori si aprono e accolgono la novità del Vangelo. Ci liberi anche dalla superbia di sentirci più avanti e migliori di fronte a coloro che sono ribelli, che sono ostili e testardi (lo siamo infatti anche noi!). Anche a loro Dio continua a parlare, anche per loro egli manda profeti, anche a loro Dio manda ciascuno di noi.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo. (Mc 6,1-4)
È forte lo stupore dei compaesani di Gesù. Ascoltano parole nuove ed inedite. Percepiscono una sapienza che non conoscono. E ogni volta che qualcosa di nuovo apre l’orizzonte, che qualcosa di profondo e sapiente aiuta a illuminare la vita sorgono nuove domande. Si interrogano sull’origine di quel suo sapere, sulla provenienza di quello che ascoltano. Non è familiare, non è conosciuto, non è stato già detto e sentito. Nemmeno i suoi gesti sono usuali: compie prodigi con le sue mani. Si avverte in lui che qualcosa è diverso da ciò che conoscono. E invece di lasciarsi condurre da lui su sentieri nuovi e non ancora battuti, si fermano lì, restano ancorati a quella che credono sia la sua storia, a quello che pensano sia il suo passato. È solo un falegname, è uno di casa, uno di cui sanno la famiglia e ogni cosa.
Si fanno troppe domande alle quali danno però risposte già pronte. Loro conoscono bene colui che gli è di fronte e gli parla. Sanno bene chi è e da dove proviene. Per loro non può essere vero un profeta se profuma di terra e parla di cielo, se usa le mani per forgiare il legno e per curare e amare gli uomini. Non può qualcuno che è proprio di casa portare qualcosa che viene da fuori. Conoscono tutto di lui, sanno chi è e come ha vissuto. E allora per loro diventa tutta una farsa. Ed è questo lo scandalo, la pietra che li fa inciampare e cadere. Riducono la sua presenza a ciò che sanno e conoscono bene. È difficile credere in un Dio che diventa vicino di casa, che si serve di gesti e parole umane, che si presenta senza tanti preavvisi, che si manifesta con la semplicità degli uomini che già conosciamo.
È lo scandalo di un Dio che non usa poteri speciali, ma uomini e donne e carne normale e anche un po’ debole. Il nostro è un Dio che si serve di tutti perché egli può rendere tutti profeti, perfino un ladrone e un centurione, una samaritana o una poco di buono. Il nostro è un Dio che in Gesù è entrato per sempre nella storia umana ed è questa storia che è diventata divina. È lo scandalo di un Dio che arriva dove non lo aspettiamo, che si fa incontrare dove dovrebbe essere assente.
È sempre difficile accettare qualcuno che ci fa vedere che la presenza di Dio è vera quando è proprio lì nel nostro banale vissuto, nelle persone che ci sono vicino. Ci sono profeti che non si fanno vedere, non usano strategie comunicative o di vendita, semplicemente hanno il sapore di qualcosa di nuovo, hanno il gusto di una vita buona. Non abbiamo bisogno di profeti che ci portino altrove, che ci insegnino cose inaudite, ma di profeti che ci aiutino a vivere il peso del quotidiano per scoprire, in quello, lo sguardo e la cura divina. È così che Dio ci ha visitato, è così che anche noi, di questa visita, possiamo essere eco e presenza.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando. (Mc 6,4-6)
Gesù può poco senza la fede, senza quell’accoglienza che è dono e ascolto, grazia ed impegno.
Può imporre solo le mani a pochi malati ma non compie grandi prodigi. Perché i prodigi veri avvengono dove c’è fede, dove c’è vero ascolto, dove Dio può cambiare la vita di tutti coloro che lo lasciano entrare.
Gesù si meraviglia della loro incredulità, quasi ne resta deluso. Eppure non cede al rancore, non resta chiuso nel suo rivendicare attenzione e non cede al vittimismo e all’accusa furiosa. Semplicemente va nei villaggi d’intorno per continuare ad insegnare. E sarebbe bello che anche noi, davanti al rifiuto e all’incomprensione semplicemente continuiamo ad andare, continuiamo ad insegnare, cioè a segnare la vita concreta degli uomini con i segni di un amore divino.
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