Parola

Solo la morte rende fecondi

XIII Domenica Tempo Ordinario Anno B (Sap 1,13-15; 2,23-24; 2Cor 8,7.9.13-15; Mc 5,21-43)

In molti modi e per diversi motivi si può raggiungere, supplicare e toccare il Maestro. Ci sono tanti modi di dirsi credenti, ma c’è un solo modo di credere davvero e per sempre. Credere è guardare in faccia la morte, è giocare con essa una sfida, è sentire che la morte ci attraversa e ci è addosso.

Credere è questione di morte perché solo quando si è di fronte e insieme alla morte la fede diventa credibile, diventa capace di riaprire alla vita. Non si può generare alla vita, non si può essere fertili e fecondi davvero senza prima aver attraversato e vinto la morte. E la morte non è vinta per nostra forza o perizia, né per ingegno e furbizia, la morte è vinta quando con fede tocchiamo e ci lasciamo toccare da Colui che, vincendo ogni nostro isolamento e chiusura, ci richiama e ridesta alla gioia di essere vivi, di essere, con lui, generatori e dispensatori di vita.

E sono due donne a dircelo e a farlo vedere, due donne che diventano “madri”, capaci di avere e generare la vita solo quando, attraversate e investite dalla stessa morte, incontrano il tocco di Colui che è vivo per sempre. Sono due donne che vivono un’unica storia d’amore.

È racconto pasquale e di vita quello che Marco ci offre. E perché sia la Pasqua bisogna che sia la morte ad entrarci dentro e ad attraversarci, perché solo se si è in grado di accogliere e affrontare e vedere la morte si diventa in grado di essere vivi e donare vita.

Non sono miracoli semplici, quelli narrati, perché sono segni che dicono e creano la possibilità di essere e restare vivi, di vivere e generare sempre altre vite. Se la vita è viva non può che moltiplicarsi e donarsi e per farlo deve, in maniera esemplare e salvifica, attraversare e superare la morte. Gesù si lascia toccare da ciò che sembra morto e già impuro e tocca egli stesso la morte. Solo il suo prendere per mano risana e ridesta alla vita, ridona sapore e vigore.

E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giàiro, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. (Mc 5,22-24)

Giàiro è un padre che ama e l’amore non può accettare che sia preparata e attesa la morte di colei a cui egli ha dato la vita. Eppure non basta un padre per restare vivi, non basta un amore terreno per mantenere e moltiplicare la vita. Questo padre perde quindi ogni remora ed ogni pudore. Dimentica anche il suo stato e il suo livello. Si getta ai piedi e supplica con insistenza. Quando la malattia è sul punto di aprire per sempre le porte della morte, ad un padre non resta altro, solo credere in ciò che sembra impossibile. In realtà Gesù aveva già guarito e sanato, si era già scontrato con ciò che all’uomo fa male. È per questo che occorre l’insistenza e la fretta. Basta che lui imponga le mani, che lui tocchi il corpo malato, perché la figlia possa essere viva e salvata. Non basta restare vivi, serve anche qualcuno che salvi la vita, che la liberi dai tormenti e dal male del vivere. Non basta essere in vita, bisogna che la vita venga sempre e di nuovo salvata, resa cioè vita in salute, vita che goda della vita stessa.

E Gesù accetta la sfida con il male, con il morbo che rischia di portare alla morte quella povera figlia. Tutti già sanno che per lui è possibile trattenere in vita, arrestare il percorso del male, interrompere il flusso che inesorabile conduce alla morte. Egli può ancora sviare il percorso, può ancora sanare la vita. Fin qui nulla di nuovo o di strano. Aveva già compiuto prodigi. Di nuovo c’è solo un padre che supplica e una figlioletta che sta morendo. E Gesù accetta la sfida, ma bisogna far presto.

Ora una donna, che aveva perdite di sangue da dodici anni e aveva molto sofferto per opera di molti medici, spendendo tutti i suoi averi senza alcun vantaggio, anzi piuttosto peggiorando, udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: «Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata». E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male. (Mc 5,25-29)

Ma il percorso che conduce Gesù al cospetto della ragazza non è semplice e nemmeno veloce. C’è troppa folla che spinge e schiaccia il maestro. Chi non vorrebbe avere a che fare con qualcuno che risana la vita, cura dal male e libera da ogni dolore? Quando si è vivi si vogliono vedere prodigi e portenti, miracoli ed effetti speciali. Ma non tutti possono vivere davvero. 

C’è una donna che da dodici anni ha come compagna la morte. Anzi la morte l’ha fatta sua, l’ha scelta come sua casa e dimora. Sì, perché la morte non è solo un attimo che pone fine alla vita. Ci sono morti che svuotano la vita ogni giorno, ogni giorno la rendono sterile, la rendono impura e costretta all’isolamento. La donna, da dodici anni, perde il suo sangue, perde la vita che la rende viva, perde il suo stesso essere donna e non può più generare altra vita. È condannata ad essere impura, a non toccare nessuno e a non sentire di nessuno il tocco d’amore, proprio quello che fa sentire vivi. È donna sterile. E non c’è rimedio. Perché quando si incontrano persone che la morte ha scelto come dimora, persone che la vita ha rinchiuso e isolato, condannato a morire ogni giorno, quando si incontrano persone del genere è facile pensare che quella vita possa essere ancora usata, prosciugata, rubata e deturpata. Ella, illusa da molti medici e rimedi, ha solo peggiorato la sua situazione.  

Questa donna sa che la morte che le vive dentro e che prosciuga la vita che è in lei ha bisogno solo di toccare qualcuno che di quella morte sappia prendersi cura. Ella, che non può essere toccata, decide di voler toccare almeno un lembo del mantello di Colui di cui ha sentito tanto parlare. Sceglie di uscire dall’isolamento, di trasgredire la legge, di non arrendersi ancora una volta ma di affrontare e sfidare la morte. 

Ella sa che basta poco per essere guarita, per interrompere il flusso di sangue che la rende più morta ogni giorno. E davvero, appena toccato il mantello, sente in sé che riesce ad essere viva, che si è fermato in lei quel flusso, quella morte che continuava a sottrarla alla vita.

E subito Gesù, essendosi reso conto della forza che era uscita da lui, si voltò alla folla dicendo: «Chi ha toccato le mie vesti?». I suoi discepoli gli dissero: «Tu vedi la folla che si stringe intorno a te e dici: “Chi mi ha toccato?”». Egli guardava attorno, per vedere colei che aveva fatto questo. E la donna, impaurita e tremante, sapendo ciò che le era accaduto, venne, gli si gettò davanti e gli disse tutta la verità. Ed egli le disse: «Figlia, la tua fede ti ha salvata. Va’ in pace e sii guarita dal tuo male». (Mc 5, 30-34)

Anche Gesù si accorge che una forza vitale è uscita da lui, si accorge che qualcuno lo ha toccato davvero. La folla lo stringe, ma non sfugge quel tocco d’amore e di fede. Da lui è uscita la forza ed è singolare che non sia lui ad averlo scelto e deciso. La forza è uscita da lui perché la donna ha toccato il mantello. E Gesù guarisce ora quasi senza saperlo e volerlo, guarisce perché la donna ha avuto il coraggio e l’ardire di toccare con fede. E la donna sa e conosce cosa ha appena vissuto, sa cosa le è accaduto. Bisogna però che le cose siano dette. Non basta averle vissute e sentite nel corpo. La donna deve uscire allo scoperto e dire tutta la verità, dire anche il dolore e la morte che ella ha vissuto. Si getta quindi davanti a Gesù e riceve da lui quello che ella, per la sua fede, già si era preso. Ella era già stata guarita, era già stata salvata. Ma ora quello che la fede ha preso Gesù lo dona, quello che la fede ha pensato Gesù lo afferma, quello che la fede ha compiuto Gesù lo rende perfetto. 

È singolare questa guarigione della vita e alla vita. La donna può ritornare a vivere con gli altri e con Dio, può ancora toccare ed essere toccata, amare ed essere amata, vivere e donare vita. Perché ora ella è salvata davvero, ha superato la sua sterile perdita perché il tocco di Gesù l’ha resa capace di diventare sposa e madre, donna che custodisce e dona la vita. Solo ora anch’ella può generare. E non è un caso che Gesù la chiami “figlia”. Ella, che ora è chiamata figlia, può iniziare ad amare, può unire il suo corpo a quello di un altro, può finalmente, diventata figlia, diventare ed essere madre.

E tutto è nato da un tocco, tutto è nato da una fede che sembra infantile, quasi magica e poco matura. E a noi, esperti e scienziati, teologi e conoscitori di tutto, resta difficile guardare quella mano e quel tocco, il lembo di quel mantello, l’evento che in quel momento si compie, la vita che riprende a vivere, l’amore che sana e che eleva. 

Certo questa sosta fa perdere tempo. Giàiro ha visto e assistito. Era lì ansioso e in attesa. E forse quelle parole lo hanno rincuorato e reso felice: Gesù sa ancora guarire. Eppure quel tempo perso diventa tempo donato alla morte che sembra aver preso la sua rivincita più vera e definitiva.

Stava ancora parlando, quando dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo. (Mc 5, 35-37)

La sfida diventa aperta e più accesa. Gesù era già un guaritore, uno capace di sanare corpi malati. Ma ora che la figlia del centurione è morta non ha senso proseguire il cammino e disturbare ancora il Maestro. Finora egli era stato uno capace di riparare la vita, di rammendare la storia, di risanare ferite. La morte è tutt’altra cosa. È il limite che non si può superare, l’abisso oltre il quale non si può andare. Alla morte non c’è rimedio. È lei che fa da padrona. Certo egli ha appena curato una donna che nessun altro era riuscito a curare. Ma questo non basta e non serve davanti alla morte. 

Eppure Gesù si ostina nel suo cammino e chiede al padre, che ha appena cessato di essere padre, solo di non temere e di avere fede. Si può non temere davanti alla morte? Si può non temere quando la vita è cessata e indietro non si può più tornare? Si può ancora aver fede quando la morte ha preso una figlia? E aver fede in che cosa? 

Sono domande che scavano e scovano dentro risposte sempre parziali, sempre in cerca di approdi ulteriori. Eppure Gesù non interrompe il cammino, non ferma i suoi passi che ora sono diretti verso una figlia che è morta e ormai senza vita. 

La folla, però, deve essere lasciata da parte. Non è tempo di dare spettacolo, di alimentare illusioni e false credenze. Gesù porta con sé solo Pietro, Giacomo e Giovanni. E questa scelta meriterebbe tante parole. Li sceglie perché sono tardi a capire, sono incapaci di accedere al mistero di tutti i misteri: è la morte che conduce alla vita. Saranno loro a vedere il Maestro trasfigurato dalla gloria sul monte e sfigurato dall’angoscia nell’orto. Saranno loro a non comprendere e a non capire che il Maestro deve morire e deve anch’egli attraversare la morte per diventare per sempre il Risorto. Ed è qui che diventano, per la prima volta e senza capirlo, testimoni di questo mistero, di questo dramma che quasi anticipa e fa intravvedere il futuro. Qui vedono, per la prima volta, come si compie la Pasqua. 

Giunsero alla casa del capo della sinagoga ed egli vide trambusto e gente che piangeva e urlava forte. Entrato, disse loro: «Perché vi agitate e piangete? La bambina non è morta, ma dorme». E lo deridevano. Ma egli, cacciati tutti fuori, prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui ed entrò dove era la bambina. 

Prese la mano della bambina e le disse: «Talità kum», che significa: «Fanciulla, io ti dico: àlzati!». E subito la fanciulla si alzò e camminava; aveva infatti dodici anni. Essi furono presi da grande stupore. E raccomandò loro con insistenza che nessuno venisse a saperlo e disse di darle da mangiare. (Mc 5, 38-43)

Giunti davanti alla casa, si vede e si ode lo spettacolo che è di ogni morte. Il lutto ha le sue regole e davanti alla morte non si può restare fermi e in silenzio. C’è pianto, trambusto e urla perché chi è vivo ha bisogno di dimostrarlo, di farsi sentire, ha bisogno di mostrare che la vita è rivolta contro la morte. Ma il Maestro sembra non vedere la morte che gli è davanti. Quando tutto è pronto per dichiarare che la vita è stata sconfitta, che la fine è stata raggiunta, che la morte ha inghiottito la storia, proprio allora il Maestro vede solo una bambina che dorme. Anzi, prima ancora di vedere la morte e i suoi segni, egli è già andato oltre, ha già scritto una storia diversa. La bambina non è morta ma dorme, perché si dorme prima di affrontare la vita e una nuova giornata. Eppure, è inutile girarci attorno, quella bambina è morta davvero, stava già per morire, era già incamminata verso la fine. E muore perché il Maestro arriva in ritardo.

Gesù, toccato per strada dalla donna, restituisce la vita ad un corpo che nascondeva la morte in un’apparenza di vita, qui, in questa casa, vede ancora la vita in un corpo che la nasconde in un’apparenza di morte.

E Gesù resta solo con lei e con chi alla vita l’ha generata e con coloro che devono ancora imparare che si vive e si resta vivi solo attraversando la morte.

Egli entra lì dove la bambina, la figlia, giaceva avvolta nel sonno mortale, e la prende per mano. Tocca con mano la morte e la rende sua, perché la fanciulla possa risorgere e alzarsi in piedi. 

E scopriamo ora che ella aveva dodici anni. Era cioè all’inizio del suo tempo fertile: a dodici anni le giovani diventavano donne da prendere in moglie, diventavano pronte per essere madri.

La fanciulla, dopo aver attraversato la morte, può alzarsi per essere madre, per diventare feconda, per generare e donare la vita. E a questa giovane diventata ormai donna bisogna anche dar da mangiare, perché la vita va nutrita e alimentata. Non si è vivi per sempre senza quel pane che è già pronto per essere moltiplicato e donato.

La storia sofferta di queste due donne ci rivela che è solo la fede in Gesù a rendere feconda la vita, a renderci umanità innamorata, sposa che dona la vita. Tocchiamo e siamo toccati da un amore che non ha uguali per il quale, quando la morte attraversa la vita, la fede la fa diventare grembo e custodia di un nuovo e più vero futuro.

Liturgia della Parola

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