Resto, ma solo perché non so dove andare
XXI Domenica Tempo Ordinario Anno B (Gs 24,1-2a.15-17.18b; Ef 5,21-32; Gv 6, 60-69)
Si può stare a lungo indecisi e incerti su come muovere i passi, su quali criteri usare per vivere, su quali modelli avere davanti, a quali parole consegnare la vita. A volte si può anche decidere di restare raminghi e vagabondi, erranti senza mappe né mete, ondivaghi per seguire il vento e la folla.
Eppure ci sono eventi che sono incroci, ci sono momenti che chiedono soste, ci sono fatti che impongono scelte. Sorge allora, nel tumulto di mille voci che sembrano vere, il desiderio che finalmente si apra una strada, che il cammino abbia un senso e una meta. Non si può restare atei per sempre, non si può, cioè, restare per sempre senza parole, ideali, stili, modelli, persone che diventino scopo e dicano il senso, che indichino strade e ispirino scelte. Arriva sempre, ad una svolta o un bivio o una caduta, il bisogno di dare rotta al proprio cammino. Ed è allora che servono parole. Ed è allora che bisogna scegliere su quali parole puntare la vita.
Giosuè disse a tutto il popolo: «Se sembra male ai vostri occhi servire il Signore, sceglietevi oggi chi servire: se gli dèi che i vostri padri hanno servito oltre il Fiume oppure gli dèi degli Amorrèi, nel cui territorio abitate. Quanto a me e alla mia casa, serviremo il Signore». (Gs 24,2a.15)
È ingenuo pensare che si possa vivere tutta una vita senza servire qualcosa o qualcuno, senza mettere se stessi e il proprio vivere a servizio di un’idea, di parole, di dèi o divinità, di mete o di scopi che siano finali. La vita chiede sempre un “perché” che la renda sensata. Si può vivere per mille motivi diversi, ma non si può vivere senza motivo, senza un “perché” e un fondamento, senza parole che diano senso al vissuto.
Non si vive senza parole, perché non si vive senza respiro. Ci sono parole a cui affidiamo il nostro respiro, parole che allo stesso respiro danno forma e suono. Siamo sempre in cerca di parole, che ci svelino e dicano il mistero profondo del nostro vivere, il senso ultimo del nostro andare.
“Sceglietevi oggi chi servire”. Sì, ci è data sempre la scelta. Sta a noi decidere chi vogliamo servire, a chi affidare questa vita che non si regge da sé, ma chiede sempre qualcosa o qualcuno che la sostenga e la tenga in piedi. E una scelta va fatta comunque, fosse anche la scelta di fondare la vita solo sul vivere, sullo strappare e rosicchiare a morsi i piccoli sensi che, da sola, questa vita può dare.
E per fare una scelta occorre fermarsi e guardare chi siamo, come viviamo, come pensiamo, cosa vogliamo, per cosa, insomma, stiamo dando la vita. Non si può vivere senza dare ad un ideale, ad una persona o ad una parola la vita che stiamo vivendo. Dobbiamo sapere per cosa e per chi stiamo vivendo.
Le tribù d’Israele, a Sichem, al bivio del loro esistere ed essere popolo, sono messe da Giosuè davanti alla scelta. O il Signore oppure i tanti dèi che hanno costellato il cammino del popolo.
E per loro e per noi la strada che conduce a Dio non è sempre retta e lineare. Dio non sembra la prima scelta. A volte per giungere a lui e al suo servizio bisogna aver confidato su altre parole, bisogna aver fallito diverse volte.
Occorre però essere chiari. Se è vero che non si può vivere senza servire qualcosa o qualcuno, è proprio qui che si pone il dilemma e un po’ di illusione. Vogliamo essere liberi, restare in piedi da soli, essere noi scopo e senso del nostro cammino. Vogliamo autodeterminarci in tutto e in ogni cosa. È giusto ed è vero. Ma alla fine ogni scelta consiste solo in un affidarsi, un appoggiarsi perché la vita sia resa stabile, perché il vivere appaia orientato.
È per questo che occorre, ad un certo punto, decidere chi davvero vogliamo servire.
Si può servire il potere, il successo, il denaro, la stima, il piacere, la soddisfazione, il proprio essere autocentrati. Si può servire il fratello, l’umanità, il bene, l’amore, il servizio, il dono, la solidarietà. Ma al di là di ciò che scegliamo, ogni servizio, necessario perché la vita si regga e resti in piedi, rischia di renderci schiavi, di togliere dignità e verità al nostro vissuto. Sì, perché anche del bene si può essere schiavi.
Il popolo rispose: «Lontano da noi abbandonare il Signore per servire altri dèi! Poiché è il Signore, nostro Dio, che ha fatto salire noi e i padri nostri dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile. Anche noi serviremo il Signore (Gs 24,16-17a.18)
Il popolo, a Sichem, pronuncia parole che suonano strane. È paradosso che fatichiamo a comprendere, è verità nella quale è difficile entrare.
Il popolo sceglie di servire Dio perché solo lui lo ha liberato da ciò che lo ha reso schiavo, da ciò che lo ha messo in condizione servile. Ci si libera dalla condizione servile solo quando, con coraggio e decisione, si mette la propria vita a servizio di Dio. È pretesa vana una vita che non abbia parole per le quali vivere, che non abbia qualcuno per cui vivere e dare la vita. La vita non si regge su se stessa. E sono tanti che, sebbene abbiano tutto, restano tristi e disperati, stanchi del loro vivere, stremati dalle parole a cui hanno affidato la vita, schiavi dei motivi per cui hanno scelto di vivere.
Sono loro a ricordarci che non c’è vita vera se non c’è una roccia sulla quale appoggiarla, non c’è un Dio al cui servizio assaporare il vento della libertà. Ad un certo punto allora la scelta si impone. E la scelta di Dio e della sua parola, occorre dircelo, spesso non è una scelta fatta per preferenza ma solo per esclusione.
Disse allora Gesù ai Dodici: «Volete andarvene anche voi?». Gli rispose Simon Pietro: «Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna e noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio» (Gv 6, 67-69)
Pietro e, con lui, ogni credente si lascia inchiodare da quella domanda. Pietro sceglie il Maestro perché non sa dove altro andare, perché sa che altre parole rendono schiavi, rendono piccola e stretta la vita. No, quella di Pietro, non è scelta di preferenza. A me sembra sia scelta fatta perché ogni altra parola si è rivelata priva di vita.
Perché anche a noi viene la voglia di andarcene, di lasciar perdere quelle parole divine che sono dure e piene di spigoli. E se resto è solo perché so che non ho altro posto dove andare, non ho altre parole su cui appoggiare la vita.
Molti dei discepoli di Gesù, dopo aver ascoltato, dissero: «Questa parola è dura! Chi può ascoltarla?» (Gv 6,60)
Ci sono parole che restano dure, che trattengono una forza che va scoperta.
Ci sono parole che ci sfidano e ci chiedono di non mollare la presa. Le parole dure restano lì, pesanti come macigni, rocce che non indietreggiano. Sono parole che ci restano di fronte, che ci sfidano a salire la vetta, a restare inchiodati alla storia perché è in essa che si compia l’evento.
Posso farmi anche del male, posso anche spaccarmi la testa, ma la Parola non cede e non viene meno.
E oggi chi può ancora ascoltare parole dure? Parole che come pietre si stagliano su ogni cammino? Che parole sono queste che non possono essere frullate, ridotte a polvere e rese leggere?
Sono parole che dicono che non basta il pane per vivere e non basta nemmeno vivere in questa carne. La storia e la vita restano in piedi solo se hanno un cibo che risana l’uomo e risana il mondo. È duro sapere che ho bisogno di vita e che il pane che mi procuro non basta per tenermi vivo. Ci vuole un Dio che parli e nella Parola che è il Figlio doni se stesso perché è di questo pane che abbiamo bisogno. C’è un cielo che si è fatto terra, una Parola che si è fatta carne, una carne che si è fatta cibo.
È dura questa parola, è duro questo spezzare la vita come fosse un pane, è duro credere in un Dio che si è fatto umano, è duro sapere che la carne da sola non basta, che ci serve anche lo Spirito perché anche la mia carne si faccia pane e doni la vita. È duro vedere che è questo il mondo che Dio ha amato. È duro capire che Dio si è fatto carne ed è qui nella mia carne che continua a donarsi e a farsi strada.
È duro sapere che non basta vivere rosicchiando la vita, che c’è una vita che è piena e divina. Ed è questa la vita che io posso avere quando mi lascio attraversare e plasmare dalla Parola che rivela l’amore, dal gesto che spezza il pane, dal dono di una vita che, ricevuta, io posso moltiplicare e donare a ciascuno.
Sì, ancora ci scandalizza questo!
Sono parole dure perché rompono i miei schemi e le mie convinzioni. Come può Dio farsi carne? Come può un uomo essere Parola del Padre? Come può Dio dare in cibo se stesso, farsi pane per la fame del mondo? Come posso io prendere questa mia vita e spezzarla perché sia, con lui, pane per la vita del mondo? La mia ragione, le mie convinzioni, le mie certezze, la mia volontà, i miei bisogni, i miei criteri trovano ancora dura questa parola. È scandalo e pietra d’inciampo un Dio che si mostra così. Un Dio che si rivela facendosi uomo, un Dio che chiede a me di farmi fare divino.
«Questo vi scandalizza? E se vedeste il Figlio dell’uomo salire là dov’era prima? (Gv 6, 61-62)
E ancora più scandaloso è questo salire del Figlio dell’uomo lì dov’era prima, nel seno del Padre. È scandaloso perché per vederlo salire bisogna vedere la croce. Questo salire ancora urta e rende difficile ogni cosa perché è un salire al cielo salendo sulla croce. E non c’è altra strada che conduca al cielo.
Ci scandalizza e ci è d’inciampo la croce!
È dura la parola che dice che non c’è strada per l’esaltazione se non quella che, per amore, passa attraverso la croce. È difficile credere a queste parole. È duro lasciarle vivere in noi.
Cristo ha amato la Chiesa e ha dato se stesso per lei, per renderla santa purificandola con il lavacro dell’acqua mediante la parola, e per presentare a se stesso la Chiesa tutta gloriosa,senza macchia né ruga o alcunché di simile, ma santa e immacolata” (Ef 5,25-27)
“Siamo membra del suo corpo” (Ef 5,30)
Ma dopo tanto vagare, dopo tanto servire parole diverse, dopo aver confidato di trovare vita altrove, forse è proprio qui che possiamo restare. Dove altro andare? Dove altro appoggiare la vita? Da chi andremo? Abbiamo già troppo toccato che altrove non c’è vita vera. Solo in quelle parole possiamo restare, solo sulla loro durezza possiamo confidare.
Non importa che non sia la prima scelta, non importa che sia una scelta per esclusione, ciò che conta è smetterla di andare altrove, di confidare che ancora ci siano posti dove sboccia e vince la vita. È solo lì che possiamo restare, perché solo lì la fede si fa conoscenza ed amore, si fa intimità che abbraccia la vita, si fa credo che condensa la vita e la rende viva rendendola autentica. Non c’è altro posto.
E allora avrò anche occhi pazienti, che guardano e attendono i tanti raminghi che ancora vagano in cerca di parole che diano vita. Attendo e spero che anche loro vedano che non ci sono altrove parole che siano vive, che non ci sono posti dove altro andare. Attendo e spero che anche gli altri giungano qui, a mettere i piedi su questa roccia, dove io tento di stare e restare, almeno fino a quando, per l’ennesima volta, non sentirò il peso di queste parole che restano dure.
E so che girerò ancora in cerca di altro, che sia più lieve e meno duro.
E che Dio mi apra gli occhi e distenda il cuore perché, per l’ennesima volta, veda che non ho dove altro andare, che non ci sono parole che mi possano davvero bastare.