E ancora continuiamo a discutere
XXV Domenica Tempo Ordinario Anno B (Map 2,12.17-20; Gc 3,16-4,3; Mc 9,30-37)
Ci sono parole che devono essere ripetute perché siano fissate nel tempo. Non basta ascoltarle e poi lasciarle cadere. Gesù continua il suo cammino attraversando sentieri già conosciuti ma, nel farlo, preferisce che nessuno lo venga a sapere, perché è intento ad aprire una strada che resta, perfino oggi, ancora difficile da riconoscere, un percorso che molti rifiutano. Eppure è su quelle parole che egli ancora ritorna come un coltello che scava e allarga la piaga.
Gesù e i suoi discepoli attraversavano la Galilea, ma egli non voleva che alcuno lo sapesse. Insegnava infatti ai suoi discepoli e diceva loro: «Il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno; ma, una volta ucciso, dopo tre giorni risorgerà» (Mc 9,30-31)
Gesù non vuole rendere pubblico il suo passaggio e che sia confuso il suo insegnare. Ora è tutto proteso, per la seconda volta, a dire parole che i discepoli fanno fatica ad ascoltare. Racconta l’esito della sua storia, il punto d’arrivo che dà senso alla sua missione. L’annuncio, che egli fa della passione, ci dice che la sua fine non giunge come qualcosa di inaspettato, come un incidente o qualcosa che è capitato. La sua uccisione è l’esito tragico di una scelta che Dio ha fatto.
È Dio che lo ha consegnato nelle mani degli uomini, lo ha affidato alla loro cura, lo ha posto in loro potere. E già questo potrebbe bastare. Che razza di Dio è quello che pone suo Figlio e quindi se stesso nelle mani e in potere dell’uomo? Che Dio è quello che si consegna e si affida all’umano? Che cosa può dire alla vita di ognuno? Si può credere in un Dio che si è consegnato?
È più facile credere in un Dio che chiede che tutto gli sia consegnato, che tutto sia posto nelle sue mani, che tutto egli stringa nel suo dominio. È più facile credere in un Dio potente che ha il mondo e ogni vita nelle sue mani. E quanto è bello seguire un Dio che ha questo potere. Non può certo fare tutto da solo. Il Messia, che i discepoli vogliono, ha bisogno di un gruppo di amici con i quali condividere il proprio potere, ha bisogno di qualcuno che governi e domini insieme con lui.
E invece Gesù è un Messia che è consegnato, reso impotente in mano degli uomini. È questa la storia che Dio ha voluto. È questo il Dio in cui anche noi diciamo di credere. Un Dio che si è fatto impotente, che si è reso uomo per essere del tutto in potere dell’uomo. E sappiamo come è andata a finire la storia. Eppure proprio perché egli è stato ucciso potrà, dopo tre giorni, risorgere. È l’impotenza di Dio che risolleva la vita, che vince la morte e lancia l’ultima e continua sfida al male e ad ogni potere, ad ogni governo, ad ogni forza che è incapace di accogliere il dono supremo e alto dell’impotenza.
Essi però non capivano queste parole e avevano timore di interrogarlo (Mc 9,32)
Ma non è semplice accettare e seguire un Dio del genere.
Se dopo il primo annuncio della passione è Pietro a ribellarsi (su questo abbiamo riflettuto domenica scorsa), ora, dopo questo secondo annuncio, Gesù resta ancora più solo.
I discepoli, lungo la strada, non capiscono la sua parola. Sono sordi e chiusi all’annuncio. Non capiscono perché non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire, di chi non vuole accogliere parole che sente lontane. Non comprendono l’annuncio di un Dio consegnato, che si è fatto impotente, che si rivela nell’abbassamento totale.
E quando uno chiude le orecchie per non sentire, anche il mutismo alla fine ha la meglio.
I discepoli non parlano e non lo interrogano. Hanno timore. Hanno già visto che Gesù su questo discorso è molto sensibile. Preferiscono restare in silenzio, hanno paura di una sua reazione o, forse, hanno paura che quelle parole si facciano ancora più forti, coinvolgano anche la loro vita.
E sembra di vederli questi discepoli e sembra di guardarci allo specchio. Davanti a parole di Dio che non piacciono, che non sono in linea con i nostri pensieri, che non collimano con le nostre aspirazioni, anche noi chiudiamo le orecchie e teniamo la bocca chiusa. Pensiamo che siano parole che non vadano prese troppo sul serio. Meglio non indagare, meglio lasciarle cadere. E diventiamo un po’ sordomuti. Non a caso Marco presenta, a contorno di questi fatti, la guarigione di due sordomuti (su una delle due abbiamo riflettuto qualche domenica fa).
Davanti all’annuncio della passione, cioè davanti alla rivelazione di un Dio distante dai nostri sogni e dalle nostre passioni, meglio rifugiarsi in se stessi, coccolare i propri sogni e i propri bisogni. È come se questo Maestro non vada poi preso sempre sul serio… Basta guardarsi dentro e anche un po’ attorno! Siamo cristiani di quale Cristo? Siamo discepoli di quale Gesù? Siamo credenti di quale Dio?
E abbiamo timore di interrogarlo, di farci dire da lui, ancora una volta, qual è la strada e quale il cammino. Meglio, a volte, lasciarlo perdere, non provocarlo e aspettare che taccia. Prima o poi dirà qualche parola che ci piace, che ci suona buona, che corrisponde e collima con il nostro pensare. E quanti discepoli, ancora oggi, sono lì a sezionare ciò che del Vangelo e della fede è bene accettare ed enfatizzare per meglio far cadere nel vuoto parole scomode e lontane dal loro pensare.
Eppure Gesù non si arrende a questa nostra chiusura, a questo rinnegare il suo cammino, al nostro tentativo, maldestro e meschino, di rinnegare la croce rinnegando la sua persona.
Giunsero a Cafàrnao. Quando fu in casa, chiese loro: «Di che cosa stavate discutendo per la strada?». Ed essi tacevano (9, 33-34a)
A Cafarnao tutti si radunano in casa. È quella casa la prima Chiesa. Viene chiamato discorso ecclesiale perché qui Gesù traccia, con mano veloce e graffiante, la bozza e il disegno di quella comunità che siamo chiamati a diventare. Ed è in casa, al sicuro e come tra amici, che Gesù incide la carne dei suoi discepoli, gira il coltello nella piaga che egli ha ormai aperto. Non può lasciar cadere nel vuoto le sue parole. Non può lasciare i suoi amici nella loro sorda e muta chiusura. Non hanno reagito alle sue scottanti parole, non si sono ribellati al suo annuncio feroce. Dopo l’episodio e l’uscita di Pietro si sono fatti un po’ più furbi e meschini. Eppure, egli lo sa. Per strada, mentre egli annunciava di essere già consegnato, hanno discusso, si sono confrontati e sfidati in modo acceso e vivace. Chiede loro il motivo del loro discutere.
Anche a questa domanda a rispondere è il loro silenzio. Non hanno il coraggio di riferire i loro discorsi, di uscire allo scoperto, di manifestare ciò che ha occupato le loro labbra e il loro cuore. Lungo la strada hanno seguito il Maestro ma sono evasi dalla loro sequela, non hanno fatto il suo stesso cammino, hanno costruito un loro percorso ideale, una scorciatoia che evitasse le zone impervie del suo camminare.
E ora tacciono perché resi muti dalle loro ambizioni, perché scoperti nei loro desideri, nelle loro manie che nulla hanno di divino.
Per la strada infatti avevano discusso tra loro chi fosse più grande (Mc 9,34b)
E quella discussione non si è mai conclusa. Ancora si discute e dibatte su chi possa essere, nella Chiesa, il più grande. Sono discussioni, a volte, velate, ammantate e rese innocenti. Eppure non cessiamo di discutere di questa cosa. Sono discussioni che non abbiamo mai smesso!
È più grande il Papa o l’insieme dei vescovi? Un prete o una donna che è madre? Un abate o un laico impegnato? Una vecchietta che vive devota o un teologo che conosce ogni cosa? Un vescovo che voterà al Sinodo o una battezzata che non potrà votare? E molte discussioni, pur ruotando su cose sulle quali occorre riflettere, su dinamiche che bisogna chiarire, su messaggi che bisogna donare, su pratiche che occorre purificare, alla fine rischiano di ridursi sempre a stabilire chi sia il più grande, chi debba contare di più, chi debba avere la meglio, chi debba usare un potere maggiore.
E anche tante discussioni di teologia, di liturgia, di morale e dei modi di essere Chiesa sono portate avanti non con la passione di chi vuole capire come servire meglio, di chi vuole condividere pezzi di strada che ha iniziato a vedere, ma con il piglio feroce e volgare di chi vuole avere ragione, di chi ha bisogno di mostrarsi più grande. Abbiamo ancora bisogno di sentirci potenti, di misurare la nostra forza, di mettere alla prova il nostro successo.
Ma non abbiamo il coraggio di uscire allo scoperto, di dirci e anche di dirgli di cosa discutiamo davvero mentre facciamo finta di seguirlo lungo il cammino.
Sedutosi, chiamò i Dodici e disse loro: «Se uno vuole essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servitore di tutti» (Mc 9, 35)
Gesù si siede e chiama i Dodici. Riprende il suo posto di Maestro e introduce parole e gesti che spiegano e fanno vedere il senso del suo cammino, del suo consegnarsi, del suo prendere con le mani la croce.
È giusto ed è bene cercare di essere il primo e il più importante. È giusto tentare di realizzare la propria vita e soddisfare il proprio bisogno. Ma Gesù sconvolge le gerarchie e le logiche umane per impiantare, almeno nella sua Chiesa, una logica del tutto nuova. Per essere il primo bisogna decidersi a prendere l’ultimo posto diventando il servitore di tutti.
In quella casa Gesù lascia intravvedere il suo sogno: una comunità nella quale ciascuno primeggia nel farsi servo. E se tutti fanno a gara per diventare servi degli altri facendosi ultimi, allora davvero ciascuno diventa il primo. Tutti servi e tutti serviti. Vite spese per ricevere vita, vite donate perché la vita sia moltiplicata.
Quella di Gesù non è una strada degradante, non è un servizio che umilia la dignità umana. Tutt’altro! Gesù ci confida il segreto per essere grandi davvero, per rendere piena la vita, per godere del vero benessere.
E, preso un bambino, lo pose in mezzo a loro e, abbracciandolo, disse loro: «Chi accoglie uno solo di questi bambini nel mio nome, accoglie me; e chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato» (Mc 9,36-37)
E Gesù, oltre a parlare, fa vedere cosa significhi la sua strada. Apre, nel centro della sua prima Chiesa, un vuoto e un posto che nessuno può ancora riempire. Chi sarà al centro di tutto? Chi è al centro della Chiesa e dei discepoli? Solo un bambino. Il bambino è posto nel mezzo perché non conta nulla, non ha potere e voce in capitolo. Il bambino è segno di colui che si è fatto impotente e per questo è degno di essere il primo e di stare al centro.
Al centro della vita, delle scelte e delle azioni della Chiesa ci sono i poveri, gli esclusi, gli impotenti, quelli che non contano e che sono ultimi. Sono questi ad essere i primi perché più simili e vicini a colui che si è reso impotente consegnandosi nelle mani degli uomini.
Quel bambino viene da Gesù anche abbracciato perché il vero servizio non è fare cose, ma accogliere l’altro e la sua vita, abbracciarlo e circondarlo d’amore. Accogliere un bambino è diventare suo servo. Accogliendo e abbracciando gli ultimi e gli impotenti, gli indigenti ed emarginati, i discepoli abbracciano ancora la carne di Cristo e accolgono il Padre che lo ha mandato.
E possiamo almeno immaginarla una Chiesa che si è fatta casa nella quale tutti sono servi degli altri, pronti a rinnegare la propria vita per vivere a servizio degli altri. Ed è immagine bella perché se tutti si fanno servi significa che tutti saranno serviti. Tutti saranno primi perché hanno avuto il coraggio di farsi ultimi.
E allora la logica che il Maestro ci offre non rinnega l’umano, ma lo esalta e lo rende vero. Non fa annegare i nostri sogni e desideri, ma li purifica e li rende concreti. Non cancella i nostri bisogni di realizzazione, ma indica la vera strada perché siamo realizzati per sempre.
E, per quanto ancora facciamo fatica a capirlo, è solo la logica dell’impotenza e della croce che rende davvero umani, che realizza i desideri che ci portiamo nel cuore.
Dove c’è gelosia e spirito di contesa, c’è disordine e ogni sorta di cattive azioni (Gc3,16)
Se il nostro realizzarci e voler essere primi insegue la strada e le strategie della gelosia e della contesa non possiamo andare lontano, non riusciamo a risolvere nulla. Lo scenario che abbiamo davanti ci narra da solo l’esito del nostro affannarci: solo disordini e cattive azioni.
Da dove vengono le guerre e le liti che sono in mezzo a voi? Non vengono forse dalle vostre passioni che fanno guerra nelle vostre membra? Siete pieni di desideri e non riuscite a possedere; uccidete, siete invidiosi e non riuscite a ottenere; combattete e fate guerra! Non avete perché non chiedete; chiedete e non ottenete perché chiedete male, per soddisfare cioè le vostre passioni (Gc 4,1-3)
Le guerre e le liti, nel mondo e nella Chiesa, hanno la loro radice nelle passioni che si fanno guerra in ciascuno di noi. Siamo pieni di ambizioni e passioni, desideri e progetti di rivalsa, invidia e malcontento, senso d’inferiorità e voglia di prevalere. Eppure tutto ciò non ci conduce da nessuna parte, non acquieta il nostro cuore, non soddisfa i nostri desideri, non ci realizza e non ci dà pace.
Sappiamo cosa produce la voglia di essere grande e di essere i primi inseguendo logiche che sono mondane. Contese, rivalità, gelosie, invidie… Siamo pronti a passare sulla vita degli altri, sulle loro storie e i loro dolori pur di giungere ai posti supremi, pur di sentirci realizzati secondo logiche di potere e grandezza delle quali siamo diventati ormai schiavi. È proprio questa logica a renderci ancora un po’ sordomuti, chiusi ad un pensiero davvero divino e, quindi, veramente umano.
Solo la strada della croce, la strada di colui che si è fatto impotente per essere servo di tutti, è la strada davvero umana. È via che ci libera dalle passioni che feriscono la dignità umana e libera in noi la vita rendendo possibile la realizzazione vera, quella divina che l’Impotente ci ha aperto e donato.