Solo l’Amore rinnova il mondo
V Domenica di Pasqua (At 14,21b-27, Ap 21,1-5; Gv 13,31-33a.34-35)
Ci stanchiamo di tutto e abbiamo sempre bisogno di novità. Ci innamoriamo all’istante di persone, situazioni, idee e circostanze e poi restiamo con l’amaro in bocca, perché ciò che ci sembra nuovo, alla fine, è destinato a passare. I nostri amori non sono affidabili. Seguono le onde e i movimenti di ciò che sentiamo, sono instabili e incostanti, sono segno del nostro tentativo continuo di salvarci la vita, di ancorare la nostra storia a qualcosa o a qualcuno.
L’esperienza ci dice che i nostri amori non sono affidabili. Si tratta di scelte e momenti che, spesso, lasciano il volto rigato da lacrime, ci lasciano più vecchi e stanchi, delusi e disillusi.
Eppure dovremmo ancora cercare una gloria che non appassisca, una forza che ci tenga in piedi, una casa che ci sappia ospitare.
Quando Giuda fu uscito [dal cenacolo], Gesù disse: Ora il Figlio dell’uomo è stato glorificato, e Dio è stato glorificato in lui. Se Dio è stato glorificato in lui, anche Dio lo glorificherà da parte sua e lo glorificherà subito (Gv 13,31-32)
L’esordio di questo brano non è dei migliori. Siamo nel contesto dell’Ultima Cena, della notte più buia del tradimento, della notte che delude ogni attesa, che smaschera le voglie segrete, che mette in vista ciò che si è tentato di tenere nascosto. È notte ed è buio quando Giuda esce dal cenacolo. Ed esce per compiere il tradimento, per realizzare la consegna dell’amico, di colui che si è piegato a lavare i suoi piedi. Ed è quella notte l’ora in cui il Figlio è glorificato. È il paradosso pasquale. L’ora della gloria coincide con l’ora del più buio abbandono, del tradimento e della consegna. Il Figlio è glorificato dal Padre e il Padre è glorificato nel figlio. E questa è una gloria strana, che abita nella notte più buia, che si realizza nel tormento più forte, che si compie quando il tradimento è compiuto.
E sembra che tutta la storia sia protesa soltanto a quell’ora, in cui il buio avanza e cattura la luce, la trattiene e vuole oscurarla. E tutta la gloria è soltanto lì, in quella luce che splende in mezzo alle tenebre, in quell’amore che resta affidabile, in quei gesti che fanno di ogni tradimento un dono e una consegna. La gloria del Padre e del Figlio non è esaltazione ed esibizione di maestosa potenza, ma rivelazione totale di un volto nuovo, quello del Crocifisso, sul quale risplende la gloria del Padre perché da quel volto l’amore raggiunga ogni uomo. La gloria di Dio è l’amore per l’uomo. Gloria di Dio è amare l’uomo fin dentro alle tenebre, perché lì dove gli uomini vedono morte e tradimento, sconforto e disillusione, paura e tribolazione, proprio lì Dio vuole rivelarci se stesso, vuole mostrarci di che pasta è fatto. E quella gloria divina è gloria che il Figlio invoca anche sull’uomo (cf Gv 17,22-23).
La vera gloria non è esaltazione di sé, non è gesto potente che mostra la forza e lo splendore. Vera gloria è l’amore che non si trattiene, che non si tira indietro, che non rinuncia ad amare, che non ha paura del rifiuto e dell’estremo abbandono. È gloriosa la vita di ognuno se risplende di amore vero anche quando il passaggio si è fatto stretto, la tribolazione si fa vicina, il dolore e la sofferenza sembrano tendere il loro assedio. I nostri amori diventano amore autentico quando sanno far luce dentro il buio passaggio della tribolazione, del rifiuto, dell’offesa e dell’ostinazione. E, alla fine, anche la morte si trasforma in gloria, perché è amore che consegna se stesso.
Figlioli, ancora per poco sono con voi. Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri (Gv 13,33a.34a)
Gesù sa che sta per lasciare i suoi. Li lascia per esserci ancora, per esserci oltre e di più. Li lascia perché saranno loro a lasciarlo andare avanti e da solo. È lui è pronto ad aprire la strada per diventare, per loro, strada e via d’accesso. E nel lasciarli, consegna se stesso. Perché in quel comandamento nuovo c’è tutta la sua vita umana e il suo essere Dio. Non consegna disposizioni e nozioni, non indica cose da fare, non offre istruzioni complete. Consegna un comandamento nuovo.
È sempre un problema capire bene questa consegna. Si può comandare l’amore? Si può dare un comando che dica che si deve amare?
In realtà Gesù può dare questo comandamento che è nuovo perché sta dando se stesso e la sua vita. Che bisognava amare lo sapevano tutti. Ma quello che Gesù consegna è un comandamento nuovo perché l’amore che egli comanda non ha nulla dei nostri amori, della nostra bontà umana, dei nostri sentimenti benevoli.
Gesù consegna se stesso, perché l’amore diventi possibile, perché la gloria si manifesti, perché l’unico Dio, che è Amore, possa restare e dimorare nel mondo, nella vita di quelli che vogliono accoglierlo. Il comandamento è nuovo perché non si tratta di amare alla maniera umana, di provare quei sentimenti di bene che pure, di tanto in tanto, abitano il nostro cuore. Bisogna essere chiari e guardarsi un po’ indietro e intorno. È impossibile credere agli amori umani: non sono credibili. Eppure, in mezzo agli amori umani, è sempre possibile credere a Dio, che ci dona la novità dell’amore perché ci dona se stesso.
Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri (Gv 13,34b)
L’amore che ci è comandato è quello che ha in Cristo la sua fonte ed origine, il motivo e la fine. Non si tratta di imitazione. Nonostante tutto, non possiamo imitare Dio, non possiamo prenderlo davvero ad esempio. Possiamo però lasciare che sia lui, che è Amore, ad amare in noi, ad amare attraverso di noi. Quel “come” non dice, in realtà, il modo o, meglio, nel dire il modo dice la possibilità che ci viene donata. Noi siamo amati da lui fino alla fine ed è quell’amore che possiamo far vivere in noi, accoglierlo e dargli spazio, al punto da amarci gli uni gli altri. E allora la gloria del Padre e del Figlio si fa visibile perché Dio è Amore che si diffonde e si dona, che travalica i nostri confini, che rompe i nostri argini, che supera le nostre barriere. Quando non sappiamo amare o confondiamo l’amore con i nostri amori, non è perché siamo cattivi, è perché non abbiamo conosciuto l’amore: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che egli ha dato la sua vita per noi; quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (1Gv 3,16). Per amarci reciprocamente dobbiamo dimenticare i nostri amori e conoscere il vero amore, accoglierlo e sentirlo nostro, talmente nostro da poterlo donare a tutti quelli che ci sono accanto.
L’amore che ci è donato è la rivelazione ultima e nuova di Dio che ci mostra, donando se stesso sulla croce, la gloria con la quale egli ha scelto di mostrarsi al mondo.
Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri (Gv 13,35)
Non c’è altro segno di riconoscimento, non c’è altro modo per risalire alla nostra identità. E oggi, se nel mondo i discepoli sembrano assenti e senza voce, non è certo perché non hanno rilevanza politica o culturale o perché non sanno restare al passo coi tempi. Mi fanno pensare le tante strategie umane per trarre fuori dall’irrilevanza la Chiesa, per tentare di darle spazio, per tentare di renderla ancora interessante. Tutte cose giuste e, forse, necessarie. Ma l’irrilevanza è dovuta alla mancanza di trasparenza. Gli altri non sanno più chi sono i discepoli, non sanno riconoscere la loro identità perché questi non sanno più mostrare l’amore e, quindi, non sanno più rendere visibile e credibile Dio che è Amore.
Quando i discepoli non sono più riconosciuti è perché non hanno più amore, non hanno più il coraggio di lasciar vivere l’amore, non hanno più la fiducia nella gloria di Dio che si manifesta proprio quando, nel buio del tradimento e dell’abbandono, solo l’amore può ancora risplendere. Avere amore gli uni per gli altri è donare e ricevere Dio da chi ci è accanto. È mostrare che è possibile vivere in modo nuovo. È possibile vivere le notti buie, quelle in cui si è fraintesi e maledetti, facendole diventare grembi in cui è custodito e cresce un modo nuovo di vivere, una vita che ci è stata donata, un amore che il mondo può ancora conoscere se noi ci decidiamo a mostrarlo.
Io, Giovanni, vidi un cielo nuovo e una terra nuova: il cielo e la terra di prima infatti erano scomparsi e il mare non c’era più. E vidi anche la città santa, la Gerusalemme nuova, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo (Ap21,1-29)
Sogniamo tutti di vedere ciò che Giovanni ha visto. Questa nostra terra ci sembra sempre più guasta e questo cielo sempre più nero. Vorremmo tutti gustare un modo nuovo di vivere, un modo insperato, inaudito e mai vissuto.
Giovanni vide un cielo nuovo e una terra nuova. Il mare, però, non c’era più, perché segno di ciò che invade la vita, di ciò che è male e porta alla morte.
Quel cielo e quella terra ci sono stati donati. E noi, a volte, abbiamo paura di lasciarci alle spalle il mondo che conosciamo, in cui vigono le regole dei nostri piccoli amori e tornaconti. Eppure, prendendo sul serio il comandamento nuovo, cioè il dono nuovo con cui Dio si è rivelato, anche la storia rinnova il suo volto, anche la terra diventa nuova. Ci è già possibile vivere in modo nuovo e rinnovare l’intera creazione lasciando che Dio viva in noi e lui, che è l’Amore, si serva di noi per rendere nuove tutte le cose.
E dal cielo Giovanni vede scendere anche la città santa, come una sposa pronta per il suo sposo. È la città che si unisce al suo Dio e lo accoglie perché egli l’ha scelta come sua tenda. È questa umanità, la mia, la tua e quella di tutti, il luogo che Dio ha scelto come dimora e questa dimora egli l’ha preparata e resa degna, l’ha resa bella e adornata. Perché tutta la bellezza e gli ornamenti sono proprio nel fatto che Dio ha scelto di farsi nostro ed è stato lui a renderci suoi, a rinnovarci con il suo amore.
Udii allora una voce potente, che veniva dal trono e diceva:
«Ecco la tenda di Dio con gli uomini!
Egli abiterà con loro
ed essi saranno suoi popoli
ed egli sarà il Dio con loro, il loro Dio.
E asciugherà ogni lacrima dai loro occhi
e non vi sarà più la morte
né lutto né lamento né affanno,
perché le cose di prima sono passate».
E Colui che sedeva sul trono disse: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,3-5a)
Ed è l’amore il compimento di questa storia, di questa vita che trasciniamo. Un Dio che asciuga le lacrime, che cancella per sempre la morte e il lutto, il lamento e l’affanno. Un Dio che dichiara che sono nuove tutte le cose, perché è lui a rinnovarle. Ed egli può dirlo perché è l’Amore, è l’Agnello che è stato immolato.
E tutto questo scende dal cielo. Scende già oggi dal cielo una vita nuova, un modo nuovo di relazionarci, di costruire città e comunità. Scende dal cielo la gioia che non conosce il pianto, il conforto che supera ogni lamento, la pace che annienta ogni affanno. Scende dal cielo, perché non è frutto di nostre ricerche, non è conquista dei nostri sforzi. È dono da accogliere e da far vivere, è scelta divina che ci viene incontro. Se lasceremo l’Amore abitare in noi, nella nostra vita sarà visibile il Padre perché daremo la nostra carne all’Amore che ci è stato donato e allora anche il mondo avrà un volto nuovo, perché saremo la Tenda in cui Dio abita e si rivela.