Parola

Vivere Dio nella sua assenza

Ascensione del Signore Anno C (At 1,1-11; Eb 9,24-28; 10,19-23; Lc 24,46-53)

L’Ascensione del Risorto al cielo è l’apertura definitiva della nostra storia, lo sfondamento di questa realtà. Il mondo non è più chiuso in se stesso, costretto a ripetere le stesse cose, a ripercorrere gli stessi percorsi. Con l’ascensione la storia ha un senso perché quella salita al “cielo” è segno e rimando ad un oltre a cui il tempo è orientato, ad un oltre a cui il mondo è chiamato. E avviene ancora quel mirabile scambio. Se a noi resta il compito di rendere il Cristo vivo e presente in questo mondo, il Cristo risorto ci rende presenti e già immersi nella realtà divina. Il Cristo e noi, suoi testimoni, siamo da allora impegnati a unire ciò che era diviso, ad avvicinare ciò che era distante, a ritrovare ciò che era perduto: perché Dio sia visto e riconosciuto persino nella sua assenza. L’Ascensione, infatti, fa ricadere su ogni credente il compito e la responsabilità di rendere viva la presenza divina, di rendere Dio presente nel mondo.

L’Ascensione al cielo ci dona uno sguardo che si immerge nelle cose del mondo per vedere e riaccendere la luce divina. Ci dona mani che toccano il fango per soffiarci dentro una vita nuova. Ascensione non è fissare il cielo, ma guardare la terra, questa terra martoriata e sporca, questo mondo insanguinato e depresso, questa umanità stanca e senza speranza. Guardare e toccare questa storia fallita è necessario perché si compia la profezia e si adempiano le Scritture. 

L’Ascensione è l’opposto di ogni evasione, di ogni estasi che non chiami all’impegno, di ogni mistica che non rigetti nel mondo. L’Ascensione è il rifiuto di ogni ritirata, di una salvezza a mio uso e consumo, di un Dio fatto a mia misura. Con l’Ascensione ogni uomo e ogni carne è innalzato all’altezza di Dio e, nei suoi testimoni, Dio ancora si abbassa sulle nostre miserie, si piega sui nostri peccati, si fa vicino nelle nostre cadute. È proprio perché attendiamo dal cielo il ritorno del Cristo glorioso che possiamo, nella fede e nella speranza, restare qui in terra a testimoniare che la Pasqua è passaggio obbligato, che il silenzio di Dio è il suono della sua voce, che la sua assenza nel mondo è il posto in cui ancora incontrarlo.

Gesù disse ai suoi discepoli: «Così sta scritto: il Cristo patirà e risorgerà dai morti il terzo giorno, e nel suo nome saranno predicati a tutti i popoli la conversione e il perdono dei peccati, cominciando da Gerusalemme. Di questo voi siete testimoni (Lc 24,46-48)

Un testimone è tale se ha vissuto e sperimentato la verità di ciò che afferma. Bisogna, quindi, essere credibili e vivere in modo tale da non contraddire la verità di ciò che si testimonia. E quando bisogna testimoniare che il Cristo è patito e risorto dai morti, si testimonia ciò che a noi resta difficile, perché ci costringe a ridimensionare i nostri criteri, a rivedere le nostre scelte, a ribaltare i nostri ragionamenti. Il Cristo atteso, colui che avrebbe dovuto far trionfare Israele e dominare il mondo, è in realtà colui che ha patito, colui che il mondo ha crocifisso e fatto fuori. Il Cristo patirà e risorgerà dai morti. Ed è difficile credere ad un Cristo così e, ancora più difficile, è scoprire che così sta scritto. I discepoli sono testimoni di ciò che sta scritto, perché di quella Scrittura hanno ora la chiave e il senso, il cuore e la mente, lo stile e il fine.  Essere testimoni di questo è incarnare un modo nuovo di stare al mondo. Perché è ora che viene la parte difficile, è ora che la profezia si deve compiere.

I popoli attendono ancora che siano predicati la conversione e il perdono dei peccati. Lo attendono i popoli che ci sono accanto, le persone che incontriamo ogni giorno. Tutti sembrano conoscere il Cristo, tutti sanno qualcosa di lui. Ma son pochi ad incontrare i suoi testimoni, uomini e donne che rendono vero e credibile l’annuncio che sanno dire a parole. Ci sono pochi testimoni pasquali.

Eppure è da millenni che si predicano le stesse cose e tutto sembra ridotto all’invito a cambiare vita e ciò che non va, a vedere e riconoscere i propri peccati. Abbiamo spesso concentrato su questo l’annuncio, la catechesi, l’essere credenti e cristiani. E alla fine sembra che tutto sia ridotto a morale. E anche Gesù sembrerebbe darci ragione. 

E invece ci sfugge che è nel suo nome che dobbiamo predicare. Intendiamoci bene. Noi siamo testimoni di lui, del suo amore e della sua missione. Siamo i testimoni del Cristo che ha patito per la sua scelta di amore e di servizio. Predicare nel suo nome significa mettere lui al centro, perché è lui il cuore dell’annuncio e della fede. Il nome dice l’identità e la missione e, pertanto, per predicare nel suo nome bisogna rendere viva la sua presenza, bisogna che quella storia passata sia resa attuale e quotidiana, vivendo di quel nome, cioè facendo nostra la sua stessa missione. Ogni annuncio, quindi, annuncia e rivela lui, ogni predica ha in lui il centro, ogni testimonianza fa vedere e sentire che in noi è vivo lui e il suo amore. 

È solo dopo e per questo che può essere predicata la conversione, perché solo allora è possibile un cambio di mentalità, un cambio di prospettiva e di visione. Non si può cambiare pensiero se non accogliendo un nuovo pensiero, se non vedendo uno stile nuovo, se non cogliendo nel Cristo che ha patito ed è risorto un nuovo cardine su cui far ruotare la vita. La conversione, cioè il cambio di mentalità, nasce dal credere a quel nome, dal credere alla sua persona, dal riconoscere e accogliere il suo amore. È solo il suo amore a svelare e a farci vedere il nostro peccato, a farci sentire il bisogno di perdono e salvezza. Dovremmo smetterla di testimoniare norme morali, di predicare peccati e castighi. Non perché non siano veri o non esistano, ma soltanto perché restano parole vuote, lontane e incomprensibili, se prima non si testimonia nel suo nome, non si fa vedere il suo amore, non si predica, con la propria vita, ciò che Dio ha fatto per gli uomini. 

Così sta scritto! E sta a noi adempiere a ciò che è scritto, rendere vera la profezia, permettere a Dio che sia compiuta la sua parola. Di questo siamo testimoni, perché abbiamo conosciuto il suo modo di essere Dio, abbiamo accolto il suo essere servo, viviamo la sua stessa vita che egli ci ha consegnato. Conversione è cambiare mentalità perché sia accolta una vita nuova, perché si accetta di vivere alla maniera di Dio. Ed è allora che si diventa testimoni, perché si diventa capaci di mostrare Dio nelle concrete vicende del nostro agire, nelle scelte banali delle nostre giornate, nel modo semplice di servire e stare al mondo. 

C’è sempre bisogno di testimoni, ma non lo si diventa con lo sforzo e l’impegno umano. Si è testimoni accogliendo nella propria vita la dura realtà del mistero pasquale, che in noi è reso vivo e attuale dal dono che solo il Figlio può darci.

Ed ecco, io mando su di voi colui che il Padre mio ha promesso; ma voi restate in città, finché non siate rivestiti di potenza dall’alto (Lc 24,49)

Ordinò loro di non allontanarsi da Gerusalemme, ma di attendere l’adempimento della promessa del Padre, «quella – disse – che voi avete udito da me: Giovanni battezzò con acqua, voi invece, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo» (At 1,4-5)

Riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi, e di me sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samarìa e fino ai confini della terra (At 1,8)

E perché sia compiuto ciò che è stato scritto, è Dio a impegnarsi per realizzare la sua promessa. Per essere suoi testimoni, per essere sua presenza nel mondo, dobbiamo prima essere battezzati nello Spirito Santo, essere cioè immersi nella vita di Dio, nel suo mistero d’amore. Non si è testimoni per sforzo e impegno umano, per decisione e volontà. Si è testimoni per la forza dello Spirito Santo. Perché la fede è, prima di tutto, grazia che opera in noi, dono che viene dall’alto, presenza che ci abita dentro e ci immerge in una nuova realtà. Finché siamo convinti che per testimoniare bastino le strategie umani, le riforme ecclesiali, le norme e li nostri progetti, resteremo sempre a mani vuote. E il mondo resterà a corto di testimoni. 

È lo Spirito che ci rende forti e credibili, perché ci modella e ci rende capaci di vivere nel nome e nello stile di Cristo, perché siano visibili, in noi e nelle nostre scelte, lo stile e le scelte di Dio. È dall’alto che siamo rivestiti dell’onnipotenza divina, che ci fa fare ciò che il mondo pensa impossibile, che ci fa vivere ciò che la mente umana considera assurdo e incomprensibile. È l’onnipotenza di Dio a renderci capaci di amare e perdonare, di sollevare e curare, di annunciare speranza ai disperati. 

L’Ascensione quindi non è scarico di responsabilità, non è evasione dal mondo, non è sguardo rivolto al cielo. La festa dell’Ascensione è la Pasqua che si fa feriale, è l’annuncio che si fa vita, è l’evento che si fa storia. Cristo ascende al cielo perché inizi il nostro momento, perché noi e lui, uniti in un solo corpo, rendiamo vivo l’amore del Padre, credibile la sua presenza, concreta e fattiva la sua tenerezza.

E quando ci sembra che manchino i testimoni, che la vita e le parole non siano credibili, serve, prima di tutto, restare aperti a quella potenza, restare aperti al fuoco divino, lasciare spazio allo Spirito rimpicciolendo il nostro io. Serve mettere in crisi i nostri pensieri perché sia lo Spirito a suggerirci pensieri e stili divini. E serve immergerci ancora, come in un battesimo, nella vita e nel mistero di Dio, perché il suo amore ci scaldi e ci renda nuovi, ci purifichi e ci renda divini.

Poi li condusse fuori verso Betània e, alzate le mani, li benedisse. Mentre li benediceva, si staccò da loro e veniva portato su, in cielo. Ed essi si prostrarono davanti a lui; poi tornarono a Gerusalemme con grande gioia e stavano sempre nel tempio lodando Dio (Lc 24,50-53)

Detto questo, mentre lo guardavano, fu elevato in alto e una nube lo sottrasse ai loro occhi. Essi stavano fissando il cielo mentre egli se ne andava, quand’ecco due uomini in bianche vesti si presentarono a loro e dissero: «Uomini di Galilea, perché state a guardare il cielo? Questo Gesù, che di mezzo a voi è stato assunto in cielo, verrà allo stesso modo in cui l’avete visto andare in cielo» (At 1,9-11)

Questa scena sa di distacco e di nuovi inizi. Il Cristo alza le mani e li benedice. È gesto solenne e carico di memoria. Come per gli antichi patriarchi e per Mosè, questa benedizione è congedo e presenza, separazione e vicinanza. È la consegna di nuove promesse, è la certezza della sua presenza, è l’affidamento del proprio vissuto. Mentre sulla terra i discepoli sono chiamati a testimoniare, le mani levate in alto del Cristo sono ancora lì a benedire, a rendere efficace il nostro annuncio, a rendere vera la nostra vita, a rendere credibile la nostra testimonianza.

Mentre i discepoli lo guardano egli viene elevato al cielo e la nube, segno di Dio e della sua presenza, lo sottrae ai loro occhi. Viviamo un tempo in cui Dio è sottratto al nostro sguardo, in cui sembra assente dal nostro orizzonte. Non lo vediamo fisicamente e, buona parte del mondo, anche di quello a noi vicino, non lo considera nel suo orizzonte. Dio sembra sottratto agli uomini e alle donne di oggi. Tanti fatti e vicende, tante correnti di pensiero e tanta storia rendono quasi impossibile, oggi, considerare Dio presente nell’orizzonte umano.  

Tuttavia, noi dobbiamo abbassare il nostro sguardo, piegarlo a questa vita. Non ci serve guardare il cielo, ma rintracciare Dio nei segni del suo silenzioso passaggio, nelle tracce che egli ha lasciato, nelle orme disseminate sul nostro terreno. Ci serve dare a Dio la nostra carne, farci sua voce e sua presenza perché risuoni, in un mondo sordo, la sua parola, perché si veda, in un mondo cieco, che egli ancora è in mezzo a noi, lo è attraverso di noi e la nostra vita, le nostre scelte e i nostri stili.

Per questo possiamo vivere con grande gioia. Perché se Dio sembra assente è perché di noi si fida e a noi si è affidato. È grande gioia sapere che presso il Padre c’è, nel Figlio, la nostra umanità, la nostra terra che è fango e miseria. Ma è grande gioia anche sapere che il Cristo è rimasto qui, nelle nostre vite, per operare e continuare il suo mistero d’amore. E quando il mondo ci sembra vuoto, vuoto di Dio e di umanità, possiamo ancora restare saldi e sperare.

Manteniamo senza vacillare la professione della nostra speranza, perché è degno di fede colui che ha promesso (Eb 10,23)
Dio ha promesso ed è degno di fede. E noi di questo siamo i testimoni se facciamo della nostra vita il santuario della sua presenza.

Liturgia della Parola

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