Il grido d’Avvento
Il tempo, scandito dall’anno liturgico, ha un inizio che coincide con l’Avvento. Il tempo, infatti, può iniziare e farsi storia perché il suo scorrere è sottratto al ciclico e insensato rincorrersi uguale dei giorni. La storia e il tempo possono iniziare perché c’è un Altrove che viene, c’è un Oltre che ad-viene. L’Avvento è il tempo che vede la nostra storia aperta all’Altrove. È il tempo in cui celebriamo la venuta, anzi esponiamo noi stessi e gli eventi a questa venuta che avviene.
Per questo non può celebrare l’Avvento chi ha colmato ogni bisogno, ha dissetato ogni sete, ha spento ogni fame. L’Avvento non è il tempo di coloro che sono sazi e ricchi, soddisfatti o già realizzati.
L’Avvento è
Tempo di mancanza
Tempo d’imperfezione
Tempo di desiderio
Tempo di incertezza
Tempo di sospensione
Non c’è Avvento se non
nella Distanza
nell’Attesa
nella Ricerca.
Avvento è sentire il vuoto che avvolge la vita e la storia senza restarne paralizzati. Avvento è sapere che qualcosa manca. Avvento è sentire che non c’è nulla che riempia il cuore, che colmi la fame di questo vivere, che faccia tacere l’inquietudine che grida ancora. Avvento è desiderare un mondo nuovo, che non conosco e non so fare. Avvento è non bastare a se stessi e sentire che la terra su cui poggiamo noi stessi è sempre instabile e incerta. Avvento è il tempo dell’Attesa. Perché attesa è scoprire l’inconsistenza del nostro vissuto, la marginalità dei nostri progetti, le domande che mettiamo a tacere perché sappiamo che potrebbero restare senza risposta.
L’Avvento è il tempo del non-saputo. È luogo del rischio perché si resta mancanti, si resta esposti e indifesi in attesa di scorgere ciò che potrebbe non arrivare. L’Avvento è ferita scavata nella nostra vita, è squarcio aperto dal desiderio, è mancanza che non si colma con nulla che non sia Altrove e divino. L’Avvento è sentire con tutta la vita e la storia che non si può fare nulla, che non c’è nulla da fare. Si può soltanto gridare e aspettare.
«Una cella di prigione come questa rappresenta un’ottima similitudine per le condizioni proprie dell’Avvento: uno aspetta, spera, fa questo, fa quello – cose di poca importanza, alla fine -, la porta è chiusa e può essere aperta solo dall’esterno» (Bonhoeffer).
L’Avvento è il tempo dell’apertura, di questa frattura che, mentre svela l’imperfezione e la ferita che brucia e addolora, fa sentire forte il bisogno di gridare oltre all’Altrove perché avvenga e venga qui. L ’Avvento è il tempo della pazienza.
Ma forse, ci siamo sbagliati. Abbiamo sentito della pazienza di Giobbe! Ma Giobbe non è paziente, è, semmai, un uomo patiens, un uomo che soffre e patisce.
Egli è un uomo impaziente che soffre e patisce il male che lo ha colto. Ed è per il male che sente in corpo che egli grida e implora Dio. Chiede a lui di farsi vedere, di uscire allo scoperto, di farsi interrogare, di dire qualche parola che possa rendere almeno sensato quel dolore, che è sempre ingiusto. Giobbe crede in Dio ed è per questa sua fede che urla a Dio e lo chiama in causa. È Dio che deve dar conto, che deve spiegare, che deve intessere in una trama di senso ciò che per Giobbe è solo dolore e umiliazione. Il grido di Giobbe è grido di avvento, perché è speranza che si impone nel dolore, è attesa che sa di non poter attendere ancora, è fede che non può più rinunciare a vedere. Giobbe grida e chiama in giudizio Dio, perché sia lui a farsi carico di ciò che accade, a farsi spazio tra i dolori e i lamenti.
A Giobbe, Dio ha nascosto il suo volto. Si è ritirato. E anche oggi egli sembra andato lontano, lasciandoci soli in balia del buio e di noi stessi. Sembra aver nascosto il suo volto, aver messo a tacere la sua voce, aver deciso di lasciarci fare, di lasciarci andare lungo i sentieri che pensiamo futuri, lungo strade che crediamo migliori, verso terre che sentiamo promesse.
Eppure il Signore verrà! Verrà a noi come a Giobbe. Verrà a noi meglio e più di Giobbe. Verrà perché è già venuto!
Maranatha!
È il grido che implora che avvenga e addivenga e venga ora, in questo squarcio incupito di cosmo, l’evento che da Oltre può rivestire e riempire il tempo, può colmarlo oltre la sua stessa misura, può allargarlo e renderlo grembo.
Maranatha! È il grido dei poveri, degli esclusi, di quelli a cui manca sempre qualcosa. È il grido di chi è inquieto e non si accontenta. È il grido dei credenti che non scambiano la fede con la verità, che non barattano la convinzione con il possesso, che non confondono il cammino con la meta. È il grido di tutta l’umanità che, nonostante i narcotici e le deliranti consolazioni, non si accontenta di rosicchiare morsi di vita e di libertà.
“Verranno giorni” è la speranza che agita le pagine del calendario, è il sospiro nascosto che anima le ore che si danno il cambio e restano vigili in attesa che giunga l’Ora, quella di cui tutte le altre sono pallido anticipo e promessa.
Verranno giorni che saranno nuovi, non perché abitati dall’insano bisogno di inseguire gli eventi, di aggiustare le cose, di trovare salvezza nelle ultime novità.
No, verranno giorni che saranno nuovi perché saranno abitati dal tempo nuovo che è Cristo, Colui che era, che è e che viene, Colui che, restando se stesso, rinnova ogni cosa. Tutto è nuovo se colmo della novità di Colui che viene da Altrove.
E noi sappiamo che la venuta divina si è fatta tempo, ha ingravidato la storia umana rendendola fertile di storia divina. Il Natale è il parto di un Altrove che si è fatto possibile già ora e già qui. E il tempo e la storia hanno già il loro centro.
L’incarnazione è il bacio che unisce e allea il tempo di Dio e quello dell’uomo. L’incarnazione racconta la verità della storia, rende sensato il caos, rende udibile, tra le chiacchiere che solcano il mondo, una Parola che prende vita. L’incarnazione fa parlare la storia donandole un Verbo che in essa si è immerso e si è fatto vedere.
Il tempo si è fatto pieno, è sempre compiuto perché, da allora, è sempre in compimento, in cammino verso la meta, verso l’Altrove che ha già conosciuto e che ora guida il cammino.
L’Avvento guarda alla fine, al tempo escatologico, al tempo dei cieli e della terra nuovi. Sono i tempi in cui già possiamo abitare. Egli è già venuto nel tempo per dimorarvi e verrà ancora e sempre viene per far dimorare il tempo nell’eternità. Egli è già venuto a mostrarci la via della pace e continua a venire, Parola che rompe ogni solitudine, abbraccio che scioglie ogni tensione, amore che apre ogni chiusura.
“Ecco, io verrò!” È la Parola che fa battere il cuore. Verrò nella guerra e nella fame, verrò nel dolore e nella sofferenza, verrò nella tribolazione e nelle ansie del vivere, verrò e sorgerà l’aurora di un mondo nuovo. Sorge già ora perché è già sorta, sorgerà ancora perché voi la vediate, sorgerà e sarà per sempre.
Ogni Avvento ci avvicina alla Parusia, alla venuta finale e gloriosa del Figlio, quel Figlio che già oggi chiede di emergere dal di dentro della nostra storia. È qui che egli ha messo casa, è qui che egli si muove con la sua tenda per guidare i nostri oscuri cammini verso il sentiero che conduce all’aurora.
Eppure, ci manca la voglia di guardare oltre e avanti, di guardare Altrove. Ci manca il coraggio di attendere, di fare spazio nel caos delle nostre parole perché sorga e si faccia sentire la Parola unica e ultima, l’unica che rende vivo il nostro parlare.
«Un cristianesimo che diventa insensibile all’attesa del ritorno di Cristo perde tutto il suo mordente… Non si può vedere proprio in questa lacuna una delle spiegazioni fondamentali dell’attuale scarsa vitalità del cristianesimo in molti di coloro che lo professano? Sono cristiani a causa di un certo passato, ma non a causa di un certo avvenire» (A .M. Besnard).
Spesso siamo cristiani per origine e non per destinazione. L’Avvento capovolge il corso usuale del tempo e ci proietta a sentirci cristiani perché abbiamo una meta, un fine, uno scopo, un traguardo. Il cristiano è colui che ha lo sguardo proteso al futuro, colui che anticipa e prepara il futuro colmando di senso e di promessa il presente. L’Avvento è mettersi in marcia verso il futuro, è profezia del nostro sperare perché abbiamo memoria di ciò che Dio ha già compiuto.
La vita non basta alla vita. C’è un oltre che è altro e che ha scelto di farsi presenza per noi. Il fuori è già qui e, proprio per questo, ci spinge e sospinge più avanti e più oltre. L’avvento è il farsi presente del nostro futuro, è lasciare che il presente sia gravido di storia nuova. Nella profondità del nostro vissuto, nelle pieghe di questi tempi, c’è già l’inizio del tempo ultimo e nuovo.
L’Avvento è più di un dolce anticipo del calore del Natale.
Le tante crisi della storia e della Chiesa hanno forse qui la loro origine e il loro germe. Abbiamo dimenticato l’Avvento. L’oblio dell’avvento rende stanco e ripetitivo il cammino. L’oblio dell’Avvento rende povera e inutile la sfida che il credente è chiamato a lanciare al mondo. Dimenticare l’Avvento significa incespicare e attardarsi, perdere tempo con ciò che passa e non dà vita. Oppure dimenticare l’avvento ci spinge, a volte, in avanti, a correre senza scopo né guida impegnati a costruire un’aurora, un mondo a nostra misura, a portata delle nostre corte e imperfette speranze, dei nostri piccoli e indegni bisogni. Non possiamo confondere l’Avvento con il nostro sforzo, il venire dell’Oltre con la nostra voglia di spingerci avanti.
C’è in noi una ferita che ci impedisce di godere delle cose del mondo, di sentirci appagati, di rinchiudere i sogni soffocandoli nel nostro dolore. C’è in noi un silenzio che diventa struggente, un vuoto che si è fatto ingombrante. Lo colmiamo di cose e di affetti, di voglie e di successi. Ma è angoscia che urla e sospira.
Ed è da quest’urlo che parte l’Avvento, da questo vuoto, da questo non sentirci a posto, da questo saperci mancanti. Non bastiamo a noi stessi.
Avvento è sentire che la vita è disperata, perché non c’è speranza che possa salvarla, non c’è mano che possa rialzarla, non c’è bene che possa saziarla. Questo è grido che invoca salvezza, che sfugge a traguardi a portata di mano.
Siamo diventati specialisti nel soffocare ogni grido, nel trasformarlo in nenia che accarezza e fa addormentare. Vantiamo salvezze e cantiamo vittorie, ma c’è un’angoscia che vibra in ogni vivente e ci ricorda che è sempre tempo d’Avvento. Vivere in questo tempo è annunciare che la storia è incompleta, monca e mancante. Annunciare che la vita è ferita.
E solo allora, la speranza può farsi largo e gridare e invocare salvezza, perché nel dramma che è questa vita solo un Dio può ancora salvarci.
Maranatha!