Parola

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La fine dei giorni

L’Avvento inizia dalla fine, da ciò che dà senso e slancio al cammino. È “alla fine dei giorni” che si volge lo sguardo perché è solo la fine che può suggerire la strada a questo presente, che può riempire le ansie del tempo con una veglia che sia luminosa, che sia colma di attesa e speranza. È grandiosa la visione dell’Avvento, perché è visione della fine, della meta a cui tutto aspira. 

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Cristo Re: un potere che vince il dovere

Celebrare Cristo Re dell’universo è chiudere il tempo, quello dell’anno liturgico, con una chiusura che, invece di porre fine al percorso, lo innalza e spinge oltre. Cristo Re dell’universo, infatti, non è un’immagine devozionale. È segno potente che incide e innesta, nell’impossibilità umana, la possibilità ultima e divina. Il potere di Cristo Re, infatti, è la possibilità che, in lui, per tutti è aperta e disponibile. 

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La fine è Dio che ci tende la mano

Il cuore è orientato al fine di tutto, a ciò che è essenziale e sopravvive. Non resterà pietra su pietra, non resterà nulla di ciò che abbiamo, non resterà nulla di questa vita. Tutto è precario e relativo. Ci sono guerre e divisioni, rivoluzioni e violenze, terremoti, carestie e pestilenze. Questa è la cronaca dei nostri giorni ed è la storia di questo mondo. Non è però ancora la fine. La fine è Dio che ci tiene per mano, che salva i capelli del nostro capo, che ci salva la vita fin dentro la morte.

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Figli della risurrezione

Avvicinandosi la fine dell’Anno liturgico gli occhi si spostano al limite di ciò che conosciamo, si affacciano sul mistero ultimo. In gioco è la meta di tutta la vita e, quindi, il senso di tutto il cammino. Anche se si è portati, per convenienza e comodità, ad appiattire la fede a misura del tempo umano, a strumento per sbrigare le nostre faccende, a mezzo per render migliore il nostro mondo, arriva sempre il momento in cui lo sguardo si solleva e guarda dentro e lontano. La fede, infatti, si regge se spinge avanti e guarda oltre. Ed è quell’oltre che rende possibile vivere questo tempo in modo nuovo. 

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Colui che cerchi ti cerca

L’episodio di Zaccheo è compendio di tutto il Vangelo e, quindi, di tutta la storia. Da Adamo a noi Dio cammina per le nostre strade in cerca dell’uomo perduto. Zaccheo cerca di vedere chi è Gesù e Gesù si mostra come colui che cerca ogni uomo perduto, ogni figlio scappato lontano. La salvezza è nell’incrocio di queste ricerche, di queste inquietudini del desiderio, di questi movimenti inaspettati del cuore. Oggi può venire la salvezza per ogni casa, perché salvezza è sapere che Dio mi cerca e mi trova proprio lì dove mi sono nascosto in attesa di poterlo vedere. Salvezza è incontrare il suo sguardo che cerca me mentre io tento di cercare lui. Salvezza è sapersi cercato da Dio, anzi sapere che Dio stesso si è dato il dovere di passare lì dove io aspetto di poterlo vedere, si è imposto il dovere di fermarsi nella mia casa perché in ogni casa in cui regna il peccato lui viene a farsi salvezza.

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Un fariseo che vive in noi

La parabola del fariseo e del pubblicano è talmente iconica e nota che è difficile leggerla così come è, lasciandoci coinvolgere in quella storia. Siamo subito pronti a tirare le somme, a condannare il fariseo per la sua presunzione, per il suo sentirsi superiore e, senza rendercene conto, prendiamo il suo posto nella parabola. Pensiamo che egli sia il cattivo e che buono, invece, sia il pubblicano e così la parabola smette di parlarci e di dirci ciò che scardina i nostri criteri, smantella i nostri giudizi, rompe l’idolo che continuiamo a farci.  

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Troverà la fede?

Ogni periodo storico ha i suoi problemi e, quindi, le sue priorità. Ed è per questo, forse, che oggi suonano un po’ fuori luogo e fuori tempo le parole che invitano alla preghiera, che quasi implorano di avere fede rendendo la vita un grido incessante che chieda a Dio di fare giustizia, di rivelare la sua presenza, di mostrare il suo regno che viene. 

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Il lebbroso trasgredisce la legge per non restare un servo inutile

Fede vera non è vivere obbedendo alla legge, fare da servi quello che è comandato. Fede vera è tornare indietro, dopo che la legge ci ha messi in cammino, per riconoscere che siamo guariti non per l’obbedienza a quel comando, ma per la grazia che ci è stata donata, per la parola che ci è stata rivolta. E così la fede ci salva perché ci conduce dal dono a colui che dona, dalla salute a colui che cura, dal perdono a colui che perdona. La fede ci salva perché ci fa vedere e incontrare Dio che ha a cuore la nostra vita e la nostra pienezza. Per comprendere appieno l’episodio dei dieci lebbrosi, ci sarà bisogno di ritornare a ciò che lo precede, alla storia dei servi che Gesù chiama inutili. Potremo così cogliere rimandi e richiami, sintesi e prospettive. Questo racconto, infatti, staccato da ciò che lo precede, rischia di vedere diminuito il suo senso e la sua ricchezza.

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Non servirsi del proprio servizio

Ci sono parole divine che fanno fatica ad entrarci nel cuore. La vita fa resistenza e oppone delle buone ragioni. A volte, ci sembra giusto rileggerle sotto altra luce, smussarle e renderle più congeniali. E, così, ci evitiamo la fatica di restare sospesi, di interrogare la vita, di mettere in crisi noi stessi e ciò che sappiamo. Le parole che la liturgia oggi ci presenta stridono e fanno rumore. Tracciano solchi che non riusciamo a colmare. E allora conviene ascoltare davvero quelle parole, mettendoci anche in ascolto dei loro echi e dei loro rimandi. Dobbiamo prenderci il tempo di ampliare lo sguardo e l’orizzonte, in attesa che sia il cuore a farsi più ampio, abitato da una fede che resta un dono, da un amore che non possediamo, da una grazia che non possiamo arginare.

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